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Essere donna in Afghanistan non è sicuramente facile. Se poi si hanno 26 anni, bombolette spray e sogni, e si dipinge sui muri fatiscenti della città…

Classe 1988, Shamsia Hassani, vanta il primato di essere la prima donna graffitista in una realtà complessa e chiusa come quella afghana e, per questo, di essere diventata, oggi, vera e propria portavoce dei diritti delle donne.

shamsia-hassaniNata in Iran, da rifugiati afgani originari del Kandahar, Shamsia è impossibilitata a iniziare i suoi studi artistici a causa della nazionalità afghana. Rientra, allora, a Kabul, dove si iscrive, nel 2006, alla facoltà di Arte. In questo periodo, inizia anche a dedicarsi all’arte contemporanea. Nel 2009, viene selezionata come uno dei migliori dieci artisti del Paese. Il gruppo si unirà in un’associazione, Rohsd (che in arabo significa crescita), che si dedicherà all’arte contemporanea.
Shamsia ha un nome bellissimo, che significa “sole”, e sole sia allora, perché intensi raggi di luce e di speranza giungono dalle sue opere.

Questa giovane artista ha iniziato a dipingere su tela, ma, nel 2010, ha scoperto il potere comunicativo della street art, durante un workshop tenuto a Kabul da un graffitista inglese, Wayne “Chu” Edwards (classe 1971, uno dei più noti graffiti artist in 3D, attivo dagli anni ’80 e nato come sviluppatore di giochi per computer come Aladino per la Game Boy). Quell’esperienza fu per Shamsia una seducente rivelazione.

shamsia-hassaniE così, iniziò a realizzare graffiti per arrivare al cuore (e alla mente) delle persone. Come ha detto in alcune interviste, attraverso i graffiti vuole parlare al popolo mediante immagini, portare l’arte nei luoghi del degrado, sulle pareti di edifici danneggiati dalla guerra e dai bombardamenti. E lasciare che mura abbandonate e sporche accolgano la rigenerante vitalità della pittura.
I colori sono in grado di coprire i cattivi ricordi della guerra, di rimuoverli dalle menti delle persone. Secondo Shamsia inoltre, il popolo afghano – e in particolar modo quello residente a Kabul – non ha una grande cultura artistica e non è avvezzo a visitare mostre (spesso non ne ha nemmeno la reale possibilità), dunque il messaggio insito in un’opera esposta in galleria rischia di andar perso o di restare confinato a stesso, mentre un dipinto murale è qualcosa che non si può evitare di vedere, se gli si passa accanto. Arriva prima della scelta stessa di vederlo, diretto e senza chiedere. E tale immediatezza visiva era, ed è, proprio ciò che Shamsia cercava, perché le immagini sono più forti e immediate delle parole.

shamsia-hassanishamsia-hassaniNella periferia di Kabul, Shamsia ha realizzato numerosi graffiti, al fine di coprire le brutture della guerra e, allo stesso tempo, di portarle a memoria, e ha invaso la sua città di burqa color cielo, simbolo di libertà, tonalità che più la mette a proprio agio. Sui muri di Kabul giganteggiano, allora, sagome in burqa dai color vividi, fatte con spray e spesso con colori acrilici e pennelli, in assenza di bombolette di buona qualità, che sul mercato locale si trovano a fatica. L’artista progetta l’immagine da realizzare e poi, velo in testa e mascherina sulla bocca, inizia a lavorare. Rischia ogni giorno molestie o aggressioni; spesso, mentre lavora, le vengono gettati dei sassi.

shamsia-hassanishamsia-hassaniAllora si ferma, rientra a casa e rielabora al pc, in Photoshop, ogni dettaglio dell’intervento urbano momentaneamente interrotto dall’ignoranza.
“Di solito – dice in un’intervista – dipingo donne con il burqa ma in una versione più moderna. Voglio raccontare le loro storie e trovare un modo per salvarle dal buio, […] aprire le loro menti, per apportare qualche cambiamento positivo”.
Le sue figure sono imponenti, austere, arrivano fino alle nuvole e sono disegnate con una linea di contorno che curva sulla testa e si fa spigolosa in prossimità delle spalle; immagini quasi titaniche nel loro sforzo di presentarsi, dominare, farsi riconoscere e accettare. E di urlare. Accanto ai loro corpi si stagliano belle linee curve e arricciolate – quasi bolle o onde del mare (ancora l’azzurro) – che accentuano il valore simbolico del lavoro di Shamsia.

shamsia-hassanishamsia-hassaniQuei riccioli e quelle bolle sono l’emblema di parole non dette, ingoiate, taciute, che le donne afghane non hanno mai avuto il diritto di pronunciare. Donne che, in quel paese, sono ancora proprietà degli uomini, che servono principalmente a tenere in ordine la casa, a procreare, a obbedire e tacere. La corazza del burqa è imposta ma, ovviamente, la questione non è solo questa. Si tratta di combattere una mentalità di pietra, per la sua pesantezza ma anche per la sua inaccettabile e incredibile arretratezza.

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Un graffito di Hassani affianco alla ‘Bambina con il palloncino’ di Bansky
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Graffito di Hassani, donna in burqa seduta su reali gradini

Uno dei suoi graffiti più noti a Kabul ritrae una donna in burqa seduta sui reali gradini di un’abitazione diroccata.
Secondo Shamsia è la rappresentazione dell’incertezza femminile odierna che vive, quindi, l’eterna esitazione nella totale restrizione: non sa se si riuscirà a “salire” recuperando una posizione più dignitosa all’interno della società, o se subirà un più disastroso crollo.

Ma, intanto, aspetta, fiduciosa, seduta sulla sua domanda. Fiduciosa come Shamsia, che ora è docente di scultura presso la Facoltà di Belle Arti di Kabul e continua a serbare in cuore sogni e tenacia. Oggi espone in India, Iran, Germania, Italia e nelle ambasciate estere di Kabul, ma il suo più grande desiderio è quello di fondare una scuola per graffitisti per diffondere il “verbo” visivo per le strade della sua città e, un giorno, di collaborare con Banksy.

Per parlare, gridare, protestare, lottare per il bene, per la libertà, per il rispetto, cambiare le cose: perché in fondo l’arte è sempre stata questo: comunicazione e rivolta. E a volere questa rivoluzione è proprio una donna: Shamsia Hassani.

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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