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Carla mi ha detto che a Teresa è entrato un ragno in un orecchio.
È andata a dormire la sera che non aveva nulla e la mattina dopo si è alzata con un fastidioso formicolio in un orecchio. Siccome non le passava, suo fratello l’ha portata al pronto soccorso e là, dopo un’attesa interminabile perché le sue condizioni di salute non erano complessivamente preoccupanti, le hanno estratto un ragno vivo da una delle due cavità auricolari.

Oristano dice che solo a sua sorella poteva succedere una cosa del genere. Non si spiega nemmeno lui come un ragno sia riuscito a infilarsi nel tunnel dell’orecchio mentre dormiva con la testa appoggiata sul cuscino. Di fatto è successo.

Oggi siamo seduti su una panchina sotto uno degli alberi della piazza principale di Pontalba, io Oristano e Carla. Teresa non c’è perché aveva appuntamento alle diciotto dal dentista.
“Non se ne capacitavano neanche i medici di quel ragno nell’orecchio di mia sorella” dice Oristano.
“Già sembrerebbe impossibile. Ma una cosa è impossibile fino a prova contraria. Quando succede non è più impossibile” dice saggiamente Carla.

Ora a Teresa è rimasta la preoccupazione dei ragni e vuole che suo fratello controlli i muri della sua stanza prima di andare a dormire la sera.
“Devo entrare nella sua camera da letto, e guardare molto attentamente le pareti, girando su me stesso in senso orario. Poi devo guardare sotto il letto con la pila. Non solo, se ha l’impressione che io abbia guardato con meno attenzione del solito, devo ripetere tutta l’operazione due volte” dice rassegnato Oristano.
Carla ride.
“Può capitare di peggio, sopporta” gli dice.

Storie di vita quotidiana a Pontalba. Storie della gente di questo paese di pianura dove il tempo dondola invece che proseguire deciso il suo cammino, storie di tutti e di nessuno.

Guardo la piazza dove siamo adesso. Una piazza grande con un obelisco ai caduti al centro. Una costruzione di cemento con l’elenco dei nomi dei militari Pontalbesi morti durante la Seconda guerra mondiale. I nomi di quei poveri giovani sono elencati uno sotto l’altro con le lettere dei nomi e dei cognomi incollate su una piastra di marmo posizionata nella parte centrale dell’obelisco. Tutt’intorno ci sono gli alberi, le panchine sotto gli alberi e un parcheggio che circonda il ‘monumento’, (così viene chiamata in maniera impropria l’area centrale della piazza che comprende obelisco, piazzetta con sassolini bianchi, alberi e panchine).

I bambini usano come sinonimi ‘andare a giocare in piazza’ e ‘andare a giocare nel monumento’ perché si identifica in questo modo l’area centrale delimitata dalle piante e il monumento ai caduti abbraccia la vegetazione diventando un tutt’uno col resto della piazza.

A giocare nel monumento ci siamo sempre andati anche quando eravamo piccoli. Era uno dei posti privilegiati di quella generazione di bambini che adesso ha intorno ai cinquant’anni. Si poteva giocare a nascondino, a rialzo, a bandiera, a rincorrersi. Nel monumento si facevano, e si fanno tutt’ora, alcune cerimonie ufficiali. Il quattro Novembre si depone una corona d’alloro sulla tomba dei poveri caduti e il Sindaco fa un discorso commemorativo.

La lunghezza e il contenuto del discorso dipende dalla bravura del Sindaco di turno. Ne abbiamo sentiti di molto lunghi e di telegrafici, di taglio intimista e, diversamente, di fedele ricostruzione storica. A parer mio poco cambia, quella povera gente è morta, le famiglie hanno sofferto, chi è rimasto ha convissuto con il trauma della perdita fin che ha respirato. La guerra è una vicenda umana tremenda: uccide un po’ tutti, chi combatte e chi resta.

Chi nasce e chi muore si trova travolto da un tempo in cui la vita normale è alterata da una vicenda drammatica che nessuno sa né come né quando finirà. Anche nella Seconda Guerra Mondiale è stato così. A maggior ragione in Lombardia, dove ci sono stati militari giovanissimi mandati al fronte, disertori, tedeschi, traditori, partigiani da sempre e partigiani dell’ultima ora che si sono intrufolati per puro opportunismo, come fanno sempre le cattive persone.

Alcuni Sindaci hanno letto il discorso, altri lo hanno declamato, altri ancora improvvisato. A volte hanno partecipato anche i bambini della scuola elementare e alcuni di loro hanno letto qualche poesia di guerra. Quasi sempre c’è stata anche la Fanfara dei bersaglieri. In un paese piccolo come Pontalba non si possono pagare fanfare particolarmente quotate. Sono piccoli gruppi di bersaglieri in pensione che suonano i tromboni.

Non corrono molto, ma tanto a Pontalba non serve, per attraversare il paese di corsa ci vogliono dieci minuti in tutto e chiunque riesce a farlo. Anche la premiazione degli Avisini (donatori di sangue) meritevoli si svolge nel monumento e anche l’ingresso del nuovo Parroco prevede sempre una tappa all’obelisco con tanto di discorso del prete uscente, del prete entrante, del delegato del vescovo, di fra Moreno e di suor Giorgina.

Anche altre iniziative si svolgono nel monumento e la partecipazione dei Pontalbesi è sempre assidua: è un luogo all’aperto circondato da strada e parcheggio. Ognuno può andare e venire quando vuole e non si paga niente per assistere alle cerimonie. Per tutti questi motivi c’è sempre tanta gente e il giorno dopo si commenta l’accaduto nelle botteghe e negli angoli delle strade del centro storico.

Sono convinta che il ‘monumento’ sia uno dei fulcri della vita civica di Pontalba e che tale resterà ancora per un bel po’. Tutti i miei concittadini sono affezionati a questa piazza, al suo obelisco, ai sassi bianchi e alle panchine di cemento.

Quando ero piccola la temevo un po’. Era un luogo in cui si tenevano molte cerimonie ufficiali, in cui si investivano preti e sindaci, in cui si ricordava la guerra e la pace, la vita e la morte. Un luogo in cui le autorità facevano grandi discorsi che io non sempre capivo ma che mi sembravano molto importanti. Ho sempre vissuto l’ufficialità di quel luogo con molto rispetto e conseguente timore. Una specie di chiesa laica e all’aperto.

Mi sembrava che in quel luogo bisognasse sempre entrare in silenzio e che all’obelisco ci si dovesse avvicinare con devozione. A differenza di molti miei coetanei sono andata poche volte a giocare là, mi incuteva timore. Tra l’altro, quando ero piccola, pensavo che dentro l’obelisco ci fossero le ossa di quei poveri militari morti e anche questo mi impediva di giocare con serenità. Poi ho scoperto che nell’obelisco di ossa non ce ne sono.

Ci sono solo i nomi attaccati a quella lapide di marmo, freddi e statici come ciò che ricordano. Quando sono un po’ cresciuta mi è venuto il dubbio che in realtà nell’obelisco non ci fossero ossa e ho chiesto spiegazioni a mia madre. Lei si è messa a ridere: “ma Costanza non vedi come è stretto e lungo l’obelisco e quanti nomi di militati morti ci sono scritti sopra? secondo te gli scheletri potrebbero stare tutti lì dentro?”

Ho dovuto riflettere e convenire che mia madre aveva ragione.
“Forse non ci sono scheletri interi, solo qualche pezzo” le ho risposto.
“Ma no Costanza, i corpi non sono mai tornati. Questi poveri ragazzi sono stati dispersi in guerra. Chissà dove sono finti i loro resti. Non sono mai stati trovati”.

È stato così che ho definitivamente realizzato che nella nostra piazza è conservata una grande tristezza, che il nostro obelisco è la rappresentazione di un dramma eterno, di corpi restituiti alla terra chissà dove e chissà come che non hanno mai avuto una definitiva sepoltura, come succede quando una famiglia accompagna un suo caro estinto al cimitero. L’obelisco è il ricordo di un dramma, di tante vite finite in fretta. In molte altre piazze d’Italia è così, per la verità.

In questa piazza si mescola il sacro e il profano, la vita e la morte, i sassi e le piante, i bambini e i vecchi, i giochi e l’amore, la rabbia e il rancore, la notte, il giorno, l’alba e la nebbia. Una piazza importante, un luogo necessario.

Ritorno al presente e smetto di pensare alla guerra. Adesso siamo qui seduti sulla panchina. Guardo i sassi bianchi e ripenso al ragno che è entrato nell’orecchio di Teresa. Carla sta parlando al telefono e Oristano si è messo a chiacchierare con Camilla che passava in bicicletta per andare al bar Della Torre a farsi prestare un po’ di monete da un euro, perché era improvvisamente rimasta senza.

“Ma cosa avranno mai tutti oggi di arrivare con i soldi di carta?” dice Camilla.
“Non chiederlo a me” gli risponde Oristano “Ho già sufficienti guai coi ragni”.
Poi comincia a raccontare a Camilla la storia del ragno e io guardo i sassi bianchi e penso che siamo davvero fortunati a non essere nati in tempo di guerra.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

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Costanza Del Re

E’ una scrittrice lombarda che racconta della vita della sua famiglia e della gente del suo paese, facendo viaggi avanti e indietro nel tempo. Con la Costanza piccola e lei stessa novantenne, si vive la storia di un’epoca con le sue infinite contraddizioni, i suoi drammi ma anche con le sue gioie e straordinarie scoperte.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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