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Barbara Mazzola. Dal suono può sembrare un nome padano, ma in realtà è una ragazza, tutto pepe, di Palermo. Per incontrarla occorre andare a visitare palazzo Steri, antica residenza dei Chiaramonte (tra le famiglie più influenti della Palermo del ‘300). Qui lavora come guida turistica e racconta che il palazzo fortificato (da cui il nome Steri, da Hosterium) è stato successivamente, dal XV secolo, residenza dei Viceré spagnoli e dal 1600 al 1782 sede del tribunale dell’inquisizione.
Lo scorso aprile Barbara, insieme con Carmela Catalano, Francesca Sommatino e Ornella Ferro, nei panni di alcune streghe hanno in pratica portato in scena la centesima replica di uno spettacolo per ricordare le sofferenze, le urla disperate, le pene e le torture, subite da chi è stato recluso nel carcere siciliano dell’inquisizione. Una sorta di singolarissima e intensa visita guidata serale, in quelle che furono per quasi due secoli le buie celle di una tremenda prigione che non lasciava scampo.
Vi finirono dentro anche preti e vescovi stando alle testimonianze rinvenute, sotto strati d’intonaco, su quei muri a seguito dei lavori di restauro che hanno consentito di riportare alla luce e, fortunatamente, conservare graffiti, versi, frasi e disegni: le testimonianze di un oceano di sofferenze patite in quella lunga notte della storia.
Fra coloro che vi furono rinchiusi, l’intensa rappresentazione dà risalto al caso di Diego La Matina, frate agostiniano giudicato eretico e finito al rogo. Della vicenda si occupò anche Leonardo Sciascia nel suo libro “Morte dell’inquisitore” (scritto nel 1964 e pubblicato da Adelphi). Una vicenda ancora oggi in buona parte avvolta in un mistero nel quale storia e racconti popolari continuano a fare a pugni. Tanto che lo stesso Sciascia ha scritto: “È un libro non finito, che non finirò mai”.
Di fra Diego La Matina si sa che nella prigionia a palazzo Steri, non la prima, durante un interrogatorio (o tortura) aggredì l’inquisitore, Juan Lopez de Cisneros, con i ceppi di ferro ai polsi, o forse con un arnese di metallo (il che accrediterebbe la tesi della presenza di strumenti di tortura). Lo uccise fracassandogli il cranio e così quello fu il drammatico epilogo di un ennesimo colloquio per ottenere la confessione della colpa di eresia. Pare che dagli archivi di Madrid sia emersa una nota con la quale la sede per antonomasia del temutissimo tribunale, la Spagna, si lamentasse per i metodi eccessivamente brutali usati a Palermo. Addirittura più realisti del re, a quanto pare.
In una delle sale è esposto un disegno a china di Renato Guttuso, nel quale un segno nero come il buio pesto di quelle celle racconta la fatale reazione. Un segno nervoso, scappato dalla mano, quasi a voler dare forma a una rabbia sociale che non fatichiamo a credere intatta verso un “problema” che tuttora stringe la Sicilia in una morsa soffocante. E, ovviamente, non si tratta del traffico, come, provocatoriamente, si dice nel film “Johnny Stecchino” di Roberto Benigni. Le pareti di palazzo Steri a Palermo continuano a raccontare una storia nella quale, nel nome dell’alleanza trono-altare, a lungo si sono tenute soggiogate menti e genti.

Un tempo nel quale il versante religioso di quel grumo di potere ci ha messo del suo per neutralizzare e disinnescare la carica inquietante e destabilizzante del messaggio evangelico. Per rendersene conto, basta sostare ancora oggi davanti all’affresco settecentesco “Fuga in Egitto” del fiammingo Guglielmo Borremans, in una delle sale del museo diocesano nel palazzo arcivescovile di Palermo. La fuga di Maria e Giuseppe per trarre in salvo il redentore dalla furia omicida di Erode (non proprio un antesignano del pensiero pedagogico), è iconograficamente ridotta a poco più di una scampagnata, con un tratto barocco perfettamente al servizio dell’ortodossia, qui celebrata anche esteticamente come una festa gioiosa di grazia bucolica.
Fra i pochi che potevano permettersi qualche libertà fuori dagli schemi, forse c’era lo scultore Giacomo Serpotta, magnifico solista della scultura a cavallo fra sei e settecento e non conosciuto fuori dall’isola come invece meriterebbe al pari di altri grandi nomi della storia dell’arte. Nella fastosa, ubriacante e straordinaria ridondanza di forme e volumi immersi nel candore estetico dello stucco, poteva permettersi di dire, come nell’oratorio del Rosario di Santa Cita, che a Lepanto non ha vinto in realtà nessuno – né cristiani né musulmani quindi – perché la guerra produce ovunque e sempre solamente miseria.

Dunque, elementi di riflessione, e non pochi, se si visita Palermo. Una città dalle mille, imperdibili, sorprese e contraddizioni. Nella quale il bello convive col brutto, il bene con il male, il giusto con l’ingiusto, in una contraddizione stridente e quotidiana, al tempo stesso, e nella quale il senso di contrasto è talmente inestricabile da sembrare metabolizzato coma la normalità. Forse specchio di un paese intero, che ha fatto della ricerca dissoluta del contraddittorio, del conflitto, dell’irrisolvibile contrasto e del provvisorio, la cifra sistemica di una normalità perennemente in bilico. Quasi un’inspiegabile e paradossale sfida alla stessa legge di gravità dell’umano.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

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Caro lettore

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Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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