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Utilizzando il gioco del monopoli proviamo ad affrontare in maniera semplice alcune grandi questioni entrate a far parte della nostra quotidianità dall’ultima grande crisi del 2007/2008.
Il primo punto riguarda le regole, l’interesse generale e l’utilità del controllo dello Stato sui processi e sugli indirizzi di politica economica. Le regole del monopoli non prevedono un interesse generale ma sono disegnate in modo che alla fine ci sia un solo vincitore che colleziona, attraverso un sapiente gioco di gestione delle compravendite, il possesso della maggior parte dei terreni, case e alberghi lasciando le briciole agli altri giocatori che per mancanza di fiches sono costretti ad abbandonare.

Non avrebbe senso intervenire a sostegno dei giocatori diventati più poveri, carenti di potere d’acquisto, perché si perderebbe il gusto del gioco che fa dell’accumulo del potere il sale delle mosse. Purtroppo lo stesso schema, in un sistema liberista come quello attuale, viene riprodotto anche nella vita reale, infatti dagli anni ’80 in poi abbiamo deregolamentato le attività finanziarie permettendo al mercato di seguire le sue regole con la presunzione che alla fine avrebbe dato soddisfazione a tutti. Ci siamo avventatamente esposti ai suoi eccessi ed abbiamo alla fine accettato le sue crisi periodiche come necessarie, accettiamo addirittura di pagare di tasca nostra i buchi neri delle banche e i lauti guadagni dei finanzieri internazionali.

Perché le cose funzionino nell’interesse generale si ha bisogno sì di regole, come del resto nei giochi, ma con una differenza fondamentale. Devono salvaguardare l’interesse generale e ci deve essere qualcuno che, ponendosi al di sopra, le controlli, sia pronto ad intervenire per evitare storture e le indirizzi sempre verso l’interesse generale. Infatti mentre nei giochi lo scopo è far uscire gli altri giocatori, nella vita reale uscire significa perdere la dignità di una vita decorosa. Anche Adam Smith, pur essendo riconosciuto come padre dell’idea liberista, e pur scrivendo della ‘mano invisibile’ che avrebbe dovuto regolare i mercati, specificò che l’interesse generale non era tra i pensieri degli uomini d’affari.

Nel momento in cui uno Stato, che esiste per tutelare l’interesse generale e il rispetto delle regole a ciò indirizzate, lascia ai mercati il potere di autoregolamentarsi, non persegue di certo l’interesse generale perché una società è costituita da persone con capacità e possibilità diverse ma tutti hanno gli stessi diritti alla tutela della propria dignità. Se lo Stato permette che questa venga compromessa e consente l’accumulo indiscriminato delle ricchezze nelle mani di pochissimi sta’ esercitando davvero male il suo mandato.

Il secondo punto riguarda fondo cassa, emissione monetaria e capacità di spesa, ovvero la differenza tra lo Stato e i giocatori.
Il monopoli è stato disegnato per permetterne il gioco ad un numero limitato di persone e per questo sono stati pensati un numero massimo di acquisti per i quali viene dato all’inizio una somma di fiches distribuita in maniera uguale per ogni giocatore.
Da quel momento in poi viene chiara la differenza tra la cassa e i giocatori. Questi ultimi non avrebbero potuto giocare se all’inizio la ‘cassa’ non si fosse preoccupata di distribuire il mezzo con il quale poter fare gli acquisti e da quel momento le dovranno delle tasse se capitano in determinate caselle oppure riceveranno dei premi se capiteranno in altre. Se un giocatore finisce le fiches, la cassa non è autorizzata ad intervenire in suo soccorso, il gioco per quel giocatore finisce, come abbiamo visto anche prima.
I giocatori non possono creare delle fiches, solo la cassa può metterne di nuove in circolazione determinando la differenza di potere tra lei e i giocatori. Inoltre la massa di fiches in circolazione, senza l’intervento della cassa, non cambia nonostante gli scambi e il fatto che alcuni avranno aumentato la loro dotazione. Ciò è avvenuto infatti solo perché altri hanno diminuito il numero iniziale di fiches.

Nella realtà la cassa potremmo immaginarla come una banca centrale che emette moneta con vari sistemi (acquistando titoli di Stato ad esempio). Se una banca centrale rimane di proprietà dello Stato lo fa quando questi ne ha necessità e tale necessità dovrebbe essere il risultato di un aumentato bisogno di scambi dovuta a maggiore disponibilità di merci, aumento della popolazione, ecc.. Non essendo una società un gioco da tavolo, chi gestisce, lo Stato, sa quando ha bisogno di aumentare la massa monetaria e quando invece diminuirla. Insomma si tratta di gestire una situazione continuamente in divenire, motivo per non dipendere ad esempio da banche private o da imposizioni esterne o semplicemente da regole che non può controllare.
Se a qualcuno venisse in mente di crearsi la propria moneta ci penserebbe il braccio armato dello Stato ad impedirlo, del resto si correrebbe il rischio di generare il caos per cui è bene che vi sia un unico mezzo di scambio nazionale e internazionalmente riconosciuto.

Ai cittadini, come ai giocatori del monopoli, non è dato stamparsi la loro moneta, l’unico modo per procurarsela è attraverso il lavoro e ne hanno assoluta necessità perché con quella moneta ci pagano le tasse, oltre che comprarsi da mangiare. Lo Stato invece la moneta che mette in circolazione non ha bisogno di riceverla da qualcun altro, non si deve alzare la mattina e andare in ufficio. Quando ancora la moneta non esisteva nella società, come all’inizio del gioco del monopoli, ha dovuto distribuirla e solo dopo ha potuto regolarla con successive immissioni o ritiro attraverso le tasse. Quindi se ci trovassimo in un periodo in cui la moneta mancasse e non fosse possibile fare gli scambi necessari, creare lavoro, aumentare il benessere perché mai lo Stato dovrebbe avere difficoltà ad immetterne dentro il sistema la quantità necessaria?

La capacità di spesa in un’economia limitata come quella del monopoli è data da fattori che sono incomprensibili in un’economia reale, invece sembra che qualcuno ci si sia ispirato e ci abbia trascinato in una specie di gioco al massacro. Un giocatore nella vita reale è una persona e farlo uscire dal gioco in nome della deregulation o dell’autonomia dei mercati è una follia che ci ha condotto a combattere l’inflazione attraverso l’aumento della disoccupazione e alla limitazione degli scambi interni.

E qui arriviamo all’ultimo punto ovvero la giustizia sociale.
La nostra Costituzione all’articolo 3 sancisce che la Repubblica si attiva per la rimozione di tutti gli ostacoli economici e sociali che limitando la libertà e l’uguaglianza ostacolino il pieno sviluppo della persona.
E a questo punto davvero usciamo dal gioco per parlare di vita reale. Oggi per mancanza di soldi una parte sempre più consistente della popolazione fatica ad accedere a istruzione, sanità e persino ad acqua e cibo. Non è forse questa mancanza di accesso agli scambi un ostacolo di natura economico e sociale che lo Stato dovrebbe rimuovere?

Tutte le azioni che lo Stato sembra mettere in atto negli ultimi sfortunatissimi tempi sembrano direzionati invece verso altri fronti. Salviamo le banche, limitiamo i diritti sul lavoro, allontaniamo le pensioni, allarghiamo la forbice tra chi possiede e chi ha bisogno. In questa vita reale, che per qualcuno è un gioco e per altri è l’esistenza, si sta creando sempre di più un solco soprattutto grazie al fatto che la conoscenza dei fattori economici sia stata tolta alla maggioranza dei cittadini, è diventata fumosa, piena di cifre e di calcoli che servono solo a confondere e a farla sembrare materia da super esperti.

Persino la Fornero e Monti sembravano inattaccabili qualche tempo fa, e andando a ritroso si scopre che tutte le previsioni economiche di crescita si sono rivelate sempre sbagliate. Ma noi non ci arrabbiamo più perché anche sbagliare oramai è da esperti e possiamo perdonarlo e del resto abbiamo subito un altro fenomeno che ci sta dando nuove soluzioni e da buoni italiani siamo più fiduciosi che incazzati, perché si fa meno fatica. Ma basterebbe confrontare le azioni che si stanno mettendo in campo con il gioco del monopoli per capire che ancora una volta non si sta cambiando assolutamente nulla.

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Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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