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Molte persone condividono l’idea che lo scopo di una società democratica e giusta debba essere quello di garantire la soddisfazione dei bisogni dei cittadini. Su cosa sia bisogno si è discusso per millenni e il dibattito è ancora aperto: già Plutarco sosteneva che “la ricchezza conforme a natura ha i suoi limiti e il suo confine, tracciato tutto intorno dal bisogno come da un compasso”. Egli affermava questo in un tempo in cui la popolazione mondiale poteva essere stimata in poco più di 200.000 milioni di persone, mentre oggi ha superato i 7 miliardi. Il contesto è radicalmente cambiato: egli viveva in un società a contato diretto con la natura, mentre noi viviamo in un ambiente in cui questo contatto è mediato dalla tecnologia, in una società tecnogena molto diversa dalle precedenti. Malgrado questo, allora come adesso, si parla di bisogni e di bisogno.

Qualcuno sostiene che sia possibile individuare bisogni comuni fondamentali e pianificare il modo per soddisfarli.
In prima istanza, sembra molto facile definire cosa serva all’uomo per vivere: aria, acqua, cibo, relazioni personali e sociali, sicurezza, un ambiente conosciuto dove potere esercitare le proprie capacità. Il modo in cui questo sistema di bisogni può essere socialmente organizzato è straordinariamente vario, come dimostrano le ricerche sociologiche, gli studi antropologici e i resoconti etnografici. Tuttavia, quando si isola il singolo individuo dalla propria cultura, dal proprio ambiente e dalle proprie tradizioni, considerandolo semplicemente come una macchina biologica, è molto facile immaginare prima e calcolare poi l’ammontare del bisogno, descrivendolo in termini di risorse ritenute scientificamente indispensabili per vivere. Molti organismi internazionali, a cominciare dalla Banca mondiale, lavorano indefessamente per descrivere il mondo proprio attraverso indici e standard numerici che, prescindendo dai contesti e dalle culture vitali, ci ritornano descrizioni asettiche, basate su statistiche che illustrano nazione per nazione, territorio per territorio, il reddito procapite, la disponibilità di medicinali, l’assunzione calorica giornaliera, la carenza di vitamine, il numero di parti per donna, la disponibilità di posti letto ospedalieri e via discorrendo. Si tratta certo di informazioni preziose, che però descrivono il mondo da uno specifico punto di vista (il nostro) e mostrano sempre, in base ad un puro confronto quantitativo tra i casi migliori e peggiori, la sterminata ampiezza di un bisogno oggettivizzato, universalmente definibile e quantificabile, che lascia intravedere altrettanto formidabili occasioni di consumo.

Qualcuno sostiene che il mercato sia l’unica soluzione per cogliere e soddisfare i bisogni della gente.
Viviamo in un mondo dominato da un’economia di mercato alla cui base sta l’idea di attori razionali orientati egoisticamente a perseguire le loro mete e preferenze soggettive. Il mercato è un’istituzione utilissima, ma come tutte le istituzioni, richiede regole chiare, comportamenti coerenti, condivisione di valori, trasparenza. Se, invece, gli attori che si muovono nel mercato sono più grandi e potenti degli stessi Stati ed Enti che ne dovrebbero regolare ed indirizzare il comportamento (come succede per molte multinazionali, per le banche, per i grandi investitori istituzionali), se l’unico criterio per avere successo nel mercato è la massimizzazione del profitto, è molto improbabile che il sistema possa andare incontro ai bisogni basilari delle persone e, in particolare, di chi possiede poco o non possiede per nulla. In tale contesto, è assai più semplice per i grandi player influenzare chi dovrebbe fare le regole ed è molto più redditizio manipolare attraverso la pubblicità le preferenze ed aspettative di consumatori. Il consumo per creare posti di lavoro, il consumo per far crescere il Pil sostituiscono il bisogno come motore dell’economia e diventano criteri necessari e sufficienti per far prosperare un sistema condannato alla crescita perpetua. In tale sistema, dove si ipotizza che solo le singole persone sappiano cosa è meglio per loro stesse, il consumo stesso rappresenta la prova a posteriori dell’esistenza di un bisogno, a prescindere da ogni tipo di ulteriore considerazione. Il bisogno finisce con il coincidere con la soluzione predisposta socialmente: il bisogno di salute viene sostituito dal bisogno di farmaci e di medici, il bisogno di mobilità dal bisogno di possedere l’automobile.

Qualcuno sostiene che si debba lavorare personalmente sui propri bisogni per acquisire una nuova consapevolezza.
Sospesi tra quanti impongono standard universalistici e quanti manipolano la percezione di ciò che serve, i cittadini sono sempre più spesso smarriti. C’è una straordinaria confusione costantemente alimentata dalla moda e delle strategie di marketing che diventano sempre più influenti e manipolatorie. Il riconoscimento dei limiti e delle fragilità, ma anche delle potenzialità e della creatività umana, apre allora la strada ad un’idea alternativa di bisogno, centrato sul protagonismo diretto della persona umana intesa come essere sociale responsabile e libero. Guardando sinceramente dentro di sé (piuttosto che esclusivamente verso l’esterno), riconoscendo la propria esigenza di vivere in un ambiente controllabile, coltivando la propria capacità di discernimento, sperimentando personalmente, l’uomo avrebbe la possibilità di esplorare e comprendere meglio la natura del proprio bisogno. Potrebbe dunque riconoscere e discriminare tra bisogni e desideri, tra bisogni e mezzi che la società mette a disposizione per soddisfarli; potrebbe rinunciare al consumo e scegliere stili di vita alternativi, cimentarsi nell’esplorazione creativa di soluzioni innovative non ortodosse. Il bisogno, depurato dai fraintendimenti del senso comune, diventa allora il motore di una sfida con cui cimentarsi e la chiave possibile dell’evoluzione interiore.

Qualcuno sostiene che si possano costruire comunità dove ognuno dà in base alle proprie capacità e riceve secondo i propri bisogni.
La valorizzazione della dimensione comunitaria e locale, della rete sociale, consente di guardare al bisogno da una prospettiva che può aiutare il cittadino ad uscire dall’isolamento che lo vede come singolo impotente di fronte al mercato impersonale e alla burocrazia anonima. Ne sono esempio le ormai numerose comunità intenzionali che si aggregano attorno a scopi specifici per fronteggiare insieme bisogni comuni. Bisogni quali l’abitare, lo spostarsi, la cura dei piccoli e degli anziani, la produzione e il consumo del cibo, l’appartenenza e il riconoscimento sociale, diventano in questi casi occasioni per trovare soluzioni che non si risolvono immediatamente ed esclusivamente nel consumo di beni e servizi codificati. Si tratta di un cambiamento basato sull’apprendimento che coinvolge singoli, gruppi, famiglie ed organizzazioni: esso richiede potenziamento di persone, orientamento alla libertà responsabile, capacità di visione e di pensiero sistemico, creatività portata alla concretezza, umana solidarietà: una direzione di sviluppo che porta ad agire fuori dagli schemi e dagli stereotipi, che va in direzione esattamente opposta rispetto alla creazione di consumatori passivi che credono di trovare nel mero consumo la chiave della felicità e di cittadini rissosi in costante competizione tra di loro.

Qualcuno sostiene che, per ottenere una società giusta, una riflessione spassionata sui bisogni dell’uomo e delle comunità che vivono in un ambiente tecnogeno, che non ha precedenti storici e che si evolve molto rapidamente, sia quanto mai urgente.
Una tale riflessione potrebbe forse partire dal riconoscimento e dall’integrazione di modalità di organizzazione del bisogno che possano garantire: un minimo essenziale di benefici per tutti in riferimento ad uno standard condiviso; la possibilità di scegliere tra differenti mezzi di soddisfacimento del bisogno; la libertà di esplorare percorsi di senso creativi alternativi allo statu quo ovvero alternativi al consumo coatto e all’imposizione forzosa di regole burocratiche; infine, la libertà di definire ed organizzare i bisogni su base comunitaria, anche in funzione di specifiche appartenenze culturali.

Ebbene sì, quasi duemila anni dopo Plutarco e in un contesto completamente diverso, c’è ancora bisogno di riflettere sui bisogni, c’è urgenza di nuovi concetti, c’è necessità di trovare nuove soluzioni concrete per soddisfarli: un buon segno e, di sicuro, una sfida che potrà determinare la qualità del nostro futuro.

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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