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In rete gira una voce attribuita al miliardario Jacob Rothschild, uno che per posizione e tradizione familiare si suppone la sappia piuttosto lunga in tema di finanza e di potere globale: “Il mondo vive il più grande esperimento di politica monetaria della storia”: un esperimento del quale non si sa quali potranno essere le conseguenze posto che “oggi ci troviamo in acque totalmente inesplorate”.

E’ sempre difficile esprimere considerazioni e giudizi quando si parla di finanza ed è arduo rimanere ancorati a qualche fatto concreto che pure potrebbe essere trovato se solo si selezionassero con molto discernimento le informazioni disponibili. Questo è invece il vero territorio del cosiddetto complottismo (termine sul quale bisognerebbe riflettere seriamente) e terreno di cultura delle ipotesi e delle teorie più fantasiose. Ed è proprio questo proliferare di discorsi e narrazioni sotterranee, che strisciano al di fuori del pensiero ufficiale, che rende ancora più difficile argomentare seriamente su un tema che diventa sempre più inquietante man mano che passa il tempo.
La celebrazione ufficiale e quotidiana della finanza ci presenta una realtà descritta con un proprio linguaggio – una neolingua – fatta di termini tecnici che i media diffondono a piene mani, che il pubblico orecchia, ma che solitamente non comprende: il glossario on line del Sole24Ore ad esempio, riporta centinaia di termini – la maggioranza, ovviamente, in inglese – che costituiscono un alfabeto alieno per i neofiti. Si va da ‘acid test’ e ‘advisor’ a ‘zero coupon bond’ passando per i vari ‘equity’, ‘junk bond’, ‘opa’, ‘takeover’, ‘trading’. E senza dimenticare ‘call, ‘warrant’, ‘blue chips’,’bond’, ‘Basilea2’, ‘hedge found’, ‘offshore’, con qualche concessione agli italianissimi e classici ‘aggiotaggio’, ‘tasso di interesse’, ‘manleva’, ‘sottostante’ e, udite udite, ‘speculazione’. Il possesso di questo linguaggio è il meccanismo attraverso il quale gli esperti e i professionisti ridotti a meri ruoli tecnici si riconoscono e si riproducono.
Contro questo muro di tecnicismi si schianta ogni tentativo di comprensione da parte dei non addetti ai lavori. Eppure, anche la finanza è un prodotto della creatività e dell’attività umana, che può e deve essere analizzato con le procedure intersoggettive trasparenti (o se si preferisce: scientifiche) di discipline quali la sociologia e l’antropologia e che, inoltre, deve essere sottoposta al vaglio di una razionalità discorsiva pubblica e non solo decisa nell’ambito di una razionalità esclusivamente tecnica.

Malgrado i tecnicismi, che la rendono impenetrabile ai più, la finanza appare però anche con un volto molto semplice ed accattivante: tutti sono in grado di capire se un indice relativo ad un prodotto finanziario sale o scende, guadagna o perde; e le azioni da compiere in questo mondo si riducono in fondo a due: comperare o vendere al momento giusto. Ciò che tutti capiscono fin troppo bene è che la salute dell’economia dipende dal comportamento dei numeri che stanno dietro a quei nomi, che povertà e ricchezza delle nazioni e delle famiglie sono determinati in buona parte dagli output generati da quel sistema che, dietro l’apparente semplicità che appare in superficie, si mostra quantomai opaco e poco trasparente; un sistema che si illustra quotidianamente attraverso grafici e statistiche digitali, che è mediato dalle parole di qualche ineffabile esperto, che è associato alle trame della speculazione (alzi la mano chi non ha mai sentito parlare di Soros), che è sempre ricondotto alla domanda delle domande che sembra assillare tutti, fino a condizionare pesantemente le scelte dei governi: a fronte di una decisione o di un evento, come reagiranno i mercati?

Eppure nel sistema finanziario globale lavorano centinaia di migliaia di persone che danno il loro piccolo o grande contributo a prescindere dai risultati e dalle conseguenze attese e inattese generate dal sistema. Il modesto cassiere di banca, il direttore della filiale sotto casa, l’assicuratore, il consulente finanziario e assicurativo con cui facciamo l’aperitivo, il banker, il trader, il quant, il broker (termini che fanno parte dello slang della city), il Ceo della grande banca, i manager e i dirigenti del FMI e della BCE, gli esperti delle agenzie di rating, gli avvocati specializzati non meno dei grandi speculatori fanno porte di questa grande industria finanziaria altamente interconnessa.
E inoltre informatici, matematici e fisici che in gran numero sono stati assunti per inventare gli algoritmi di calcolo che consentono di generare complicatissimi prodotti finanziarie e, minimizzando i tempi delle transazioni, permettono di estrarre profitti speculando sulle diverse piazze mondiali giocando sul filo dei millesimi di secondo.
Anche su molti di questi lavoratori cade la scure del licenziamento, in alto per l’alto rischio insito nel gioco, in basso sia per gli effetti dell’automazione che elimina posti di lavoro, sia per le strategie aziendali di taglio del personale che caratterizzano anche le imprese del settore finanziario (per massimizzare il valore in borsa nel breve periodo).

Non va dimenticato infatti che nel sistema agiscono soprattutto grandi capitali e imprese private (come banche ed assicurazioni) il cui scopo è appunto quello di massimizzare il profitto, ma agiscono anche centinaia di milioni di risparmiatori diventati piccoli speculatori e spinti. non di rado, da una insana avidità. Ma nella grande industria finanziaria che rappresenta il lato più avanzato (e impersonale) della globalizzazione agiscono attori, oltre le banche, che il pubblico ignora e con i quali molti di noi hanno rapporti ben più stretti di quel che sembra. Fondi pensione, assicurazioni, fondi comuni di investimento, casse previdenziali, venture capital, private equity per non citare che i più noti.
Molti di essi sono troppo grandi per fallire, un modo piuttosto viscido per dire che non sono controllabili né dai meccanismi di mercato, né da regole legali (sempre aggirabili), né tantomeno da procedure democratiche.

Nessuno dei soggetti che dirige l’industria finanziaria che può imporre le proprie scelte ai governi legalmente eletti è stato mai eletto, nessuno di loro risponde dunque agli elettori; nessuna procedura democratica trova facilmente posto (e dignità) nell’industria finanziaria che conta. Grandi e piccoli manager del circo finanziario rispondono invece ai livelli gerarchici superiori e, soprattutto, ai grandi azionisti che detengono la proprietà delle organizzazioni finanziarie. E rispondono senz’altro ai codici culturali che nel mondo finanziario sono assai forti: chiusura verso l’esterno, discrezione, riservatezza, competizione, difesa del clan; un codice che – nella city londinese – è stato ricostruito e presentato da Joris Luyendijk sul blog del Guardian; un codice dove la reputazione è essenziale ma che alimenta spesso un clima di paura, una cultura tossica, che si sposa con l’amoralità che accompagna (quasi) sempre il trionfo del tecnicismo autoreferente. Un quadro rappresentato dal cinema (chi non ricorda il banchiere d’assalto Gordon Gekko del film Wall Street?) ma suffragato da (pochissime) indagini antropologiche, etnografiche e sociologiche.

Riassumiamo. Se la finanza è la disciplina attraverso cui si gestiscono i flussi finanziari, il sistema all’interno del quale questi flussi scorrono è straordinariamente complesso ed in esso la tecnologia digitale gioca un ruolo sempre più forte; è tuttavia un sistema sociale istituzionalizzato fatto di organizzazioni, norme, persone. Al suo interno esistono meccanismi incentivanti e un cultura specifica che indirizza i comportamenti delle persone che decidono orientandolo verso pratiche volte alla massimizzazione del profitto a breve termine. Nel sistema agiscono attori così grandi e forti che non debbono temere più di tanto le conseguenze del loro agire mentre le lobby che li rappresentano sono in grado di influenzare pesantemente la produzione di leggi e normative, comprese quelle che ne dovrebbero regolare i comportamenti. Anche gli Stati sono obbligati a rispondere a regole dettate da questo sistema e sono addirittura valutati dalle agenzie di rating che ne sanciscono efficienza ed affidabilità. La velocità con cui tutto questo si muove è l’esatto contrario delle lente procedure democratiche utilizzate dai governi; infine, non esiste una diffusa consapevolezza pubblica di come sia strutturato e funzioni questo sistema, di chi ne detenga il potere, di come venga prodotto e gestito il flusso di denaro, mancando in tal modo qualsiasi forma di controllo democratico dal basso.

Sembra che oggi tutto questo complicatissimo meccanismo sia sfuggito non solo al controllo dei politici eletti ma anche dei potenti stessi che lo hanno voluto e gestito e si stia indirizzando verso direzioni che nessuno riesce più a prevedere; sembra che la crisi non abbia insegnato nulla se non che le perdite continueranno a riversarsi sugli Stati e sui cittadini. Dunque, ancora una volta la domanda è: che fare? Una domanda che, si suppone, i decisori del sistema finanziario si saranno posti più di una volta e che i politici seri dovrebbero porsi ogni giorno. A meno che, come sostengono i cosiddetti complottisti – e lo diciamo cercando di usare un certo sense of humor – tutto questo non corrisponda ad un piano (!) ben preciso. A meno che, come sosteneva con tutt’altra legittimità Luciano Gallino, non ci sia passato sotto il naso un colpo di stato silenzioso ordito da banche e governi a danno dei cittadini lavoratori e della democrazia.

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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