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Si affida alla storia e alla memoria Elisabetta Sgarbi per rimanere lontano dalla retorica, fantasma sempre in agguato quando ci si confronta con il racconto degli episodi della Resistenza e degli ultimi decisivi mesi di guerra, trappola che imprigiona ricordi di vita vissuta in una narrazione stereotipata senza spazi per la complessità e che li spinge in un passato sempre più lontano e difficile da comprendere per il tempo presente.
Il lavoro della Sgarbi, al contrario, narra della Resistenza nelle pianure del Basso Ferrarese e del Polesine, tema ancora molto controverso nel dibattito storiografico, e lo fa attraverso le testimonianze di chi quel periodo lo ha vissuto, includendo episodi eroici e meno eroici.

Lidia Bellodi, una delle testimoni del film di Elisabetta Sgarbi

Velia-film-sgarbiVelia Evangelisti e (sopra) Lidia Bellodi, due delle testimoni del film di Elisabetta Sgarbi

Le celebrazioni del 69° anniversario della Liberazione a Ferrara sono iniziate proprio con la presentazione del film-documentario ‘Quando i tedeschi non sapevano nuotare’ della regista ferrarese Elisabetta Sgarbi, organizzata dal Comune di Ferrara, dal Museo Civico del Risorgimento e della Resistenza, da Arci, Anpi, Betty Wrong e Rai Cinema.

Sono storici che della Resistenza nel nostro territorio si occupano da sempre, come Anna Quarzi, direttrice dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, Davide Guarnieri, Andrea Rossi e il direttore dell’Istituto Parri di Bologna Luca Alessandrini, a confutare la tesi che la lotta di Liberazione non fosse possibile in pianura, a causa della mancanza di luoghi in cui nascondersi. Non solo, secondo Antonella Guarnieri – storica e responsabile comunicazione e didattica del Museo della Resistenza di Ferrara – già prima del 1943 è individuabile il “movimento antifascista” che porta “in carcere 60 ferraresi, tra cui lo stesso Giorgio Bassani e Alda Costa” e che preoccupa le autorità per la sua “particolarissima caratteristica di essere interpartitico e interclassista”.

film-elisabetta-sgarbi

Fin qui la storia, ma navigando sul Grande Fiume è come se gli innumerevoli rami che crea nel suo Delta ci portassero ad approdare ad altrettante vicende di coloro che in quegli anni c’erano. Il loro racconto non è fatto solo di parole, anzi forse la parte più importante sono i loro volti, i loro sguardi, su cui la regista indugia perché, confessa, “è un modo di entrare con una lente di ingrandimento” dentro le emozioni. Il rabbino Luciano Caro testimonia “l’orgoglio” della comunità ebraica ferrarese e la sua esperienza personale di rifugiato in un paese vicino Lucca: “abbiamo vissuto i due aspetti la protezione e la delazione”, tutta la comunità li ha protetti nonostante sapesse delle loro origini, ma fu un conoscente del padre a denunciarlo, deportato ad Auschwitz non fece più ritorno. Balduino Masieri di Alberone narra di quando ha visto i tedeschi annegare inghiottiti nelle acque del Po mentre tentavano di attraversarlo con una fune, e Giuseppe Sgarbi, il padre di Elisabetta e Vittorio, ricorda una giornata passata nascosto a fumare per il timore di essere di essere catturato durante un rastrellamento. Lidia, partigiana di Bondeno, racconta di quel 18 febbraio 1945, quando più di duecento donne, madri, mogli, sorelle, fidanzate, hanno assaltato il Comune di Bondeno e gettato i registri di leva dell’anagrafe giù dalle finestre per bruciarli: lei all’epoca aveva 19 anni ed era fra quelle donne. Ma si ricorda anche di quella sua amica staffetta che per passare un posto di blocco di fascisti e tedeschi si è tirata su la gonna: allora poche donne potevano permettersi di comprare le mutande da indossare sotto i vestiti. Velia, staffetta di Ferrara, parla dell’orgoglio di suo padre antifascista quando l’ha vista uscire di casa in missione vestita da uomo con il suo cappello in testa, ma anche dello scivolone subito fuori dalla porta a causa del ghiaccio sul marciapiede e poi delle serate con suo marito: “mi veniva a prendere in bicicletta e via che andavamo a ballare”.

Non racconti epici, ma episodi di una guerra divenuta quotidianità, non eroi, ma testimoni sopravvissuti, che ci raccontano dei loro vent’anni.

“Avevamo vent’anni e oltre il ponte
oltre il ponte ch’è in mano nemica
vedevam l’altra riva, la vita
tutto il bene del mondo oltre il ponte.
Tutto il male avevamo di fronte
tutto il bene avevamo nel cuore
a vent’anni la vita è oltre il ponte
oltre il fuoco comincia l’amore.

Vedevamo a portata di mano
oltre il tronco il cespuglio il canneto
l’avvenire di un giorno più umano
e più giusto più libero e lieto.”
(Italo Calvino, Oltre il ponte)

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Federica Pezzoli


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di Piermaria Romani

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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