Skip to main content

Il 9 maggio di quarant’anni fa fu trovato il corpo senza vita di Aldo Moro, riverso nel bagagliaio di una Renault 4 in via Caetani a Roma.
In questi tempi di commemorazioni abbiamo sentito e risentito la telefonata di Valerio Morucci a Franco Tritto, quel 9 maggio 1978, per indicare il luogo di quello spietato epilogo.
Le indagini condotte dalla commissione parlamentare, presieduta da Giuseppe Fioroni, e le considerazioni più volte espresse da Miguel Gotor, Gero Grassi e dallo stesso Fioroni, portano ad avere seri dubbi su come siano andate realmente le cose. Sintomatiche le parole di Grassi, secondo il quale la mattina del rapimento, 55 giorni prima della sua uccisione, in via Fani “c’erano anche le Br”.
Non è la prima volta che verità storica e giudiziaria non coincidono. È successo anche, per esempio, con l’omicidio di Pier Paolo Pasolini, del quale restano famose le parole secondo le quali sappiamo chi ha messo le bombe nella lunga e insanguinata storia stragista italiana, “ma non abbiamo le prove”.

Bello e intenso è stato il ricordo di Moro andato in onda su Rai Uno martedì 8 maggio con letture di Luca Zingaretti e un’interpretazione del presidente della Dc di Sergio Castellitto da levarsi il cappello.
Per inciso, un’operazione che ha ascoltato le voci dei suoi studenti universitari di allora e di chi ha seriamente lavorato sulle carte, a differenza di altri programmi televisivi che hanno invece ossessivamente acceso il microfono davanti alle bocche (reticenti, smemorate?) dei brigatisti, grandemente ignari del prezzo che tuttora l’Italia sta pagando a causa di quel colossale errore.
Tutto per sentire Valerio Morucci ammettere davanti alla telecamera che invece del veleggiare trionfante della barca rivoluzionaria sopra un fiume di sangue, il risultato è stato il suo affondamento.
Ma che scoperta!

Al netto di quello che si sa, di quello che non si sa e di ciò che si può solo supporre, col senno di poi si può dire che ad Aldo Moro l’Italia ha preferito la Dc di Giulio Andreotti.
Sulla politica di respiro e disegno, di prospettiva e inclusione democratica, ha prevalso quella del tirare a campare. Lo stesso Andreotti disse una volta di Moro: “La differenza è che lui parla con Dio, io parlo con i preti”.
Così quel tragico e sanguinoso 1978 partorì la Democrazia cristiana del Preambolo e poi gli esecutivi del Caf (Craxi, Andreotti e Forlani), trascinando formule e schemi di governo in evidente stato di decomposizione. Il risultato è stato che il tirare a campare si è tradotto in un acido corrosivo delle fondamenta istituzionali e culturali della Repubblica. Un lento e agonico tirare le cuoia, pertanto, sospinto da una corruzione istituzionale a livelli di metastasi; da una criminalità organizzata con la quale, così pare, si sono fatti accordi inconfessabili per allentare misure detentive e per scopi elettorali; dal sovrapporsi nella politica di destini e interessi personali a quelli generali, col risultato di una classe dirigente perfettamente sintonizzata su quest’orizzonte e incurante delle conseguenze.

Una cieca esaltazione del presente senza domani e uno sfrenato spendere le risorse anche di chi verrà dopo, che ha portato diritto a Tangentopoli e alla fine, impropria, della prima Repubblica. Impropria, perché una seconda non è mai nata, visto che l’asfittico spazio politico italiano non è mai riuscito a dare respiro e gambe a un necessario e ancora urgentissimo processo riformatore costituzionale e istituzionale.

Troppo è stato il tempo perso a contare inutilmente il numero di Repubbliche a Costituzione invariata (articolo più, articolo meno), mentre l’unico ideale sublimato ad alta carica dello Stato è diventato l’interesse personale. “Se diventa ricco lui, lo diventiamo tutti”, si ammetteva spudoratamente plaudendo alla discesa in campo di Silvio Berlusconi, illusoria traduzione in politica del principio dei vasi comunicanti.
Ne è seguita una lunga caimanizzazione della politica, d’altronde già resa una canna al vento dopo gli urti della ‘Milano da bere’ e del ‘così fan tutti’.
Lo capì fin dal primo momento Indro Montanelli.
Una sorta di Adamo Smith in stile Pulcinella, secondo l’antico automatismo: “L’interesse del macellaio finisce per procurarci la bistecca”.
L’unico automatismo prodotto, nei fatti, è una politica senza classe dirigente, perdutamente distante dalla realtà. Basti pensare che nell’agenda di ogni governo da anni a questa parte c’è il problema della legge elettorale.
Ora, oltre al distacco dalla realtà c’è chi rileva quello dalle istituzioni. E ciò che abbiamo visto dal giorno dopo delle elezioni dello scorso 4 marzo ne è la disinvolta messa in scena.

In questo deserto non è esente la sinistra, con l’ultima sua creatura: il Pd.
Dalla sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale del 4 dicembre 2016, pallida copia del tentativo già ulivista per una democrazia competitiva e governante, è stato un susseguirsi di rovesci.
Impietoso, in proposito il giudizio di Gianfranco Brunelli (‘Il Regno’, 6/2018): “Nessuno è stato all’altezza del proprio ruolo e del proprio compito”.
Non il gruppo ex-comunista che, fin dall’Ulivo, ha sistematicamente rifiutato ogni trasformazione del modello partito e mai accettato la messa in discussione della propria leadership interna, col risultato di non salvare nulla della propria storia.
Non Matteo Renzi, che ha preteso di piegare a un ego incontenibile e impaziente un cruciale tornante di modernizzazione costituzionale e istituzionale, che andava ben altrimenti oggettivato e condiviso.
Diversi dicono e scrivono che questo scenario sconfortante non è il prodotto di questi tempi, ma ha origini lontane.
Alcune di queste risalgono a quel tragico 9 maggio 1978.

tag:

Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

Periscopio è  proprietà di un azionariato diffuso e partecipato, garanzia di una gestitone collettiva e democratica del quotidiano. Si finanzia, quindi vive, grazie ai liberi contributi dei suoi lettori amici e sostenitori. Accetta e ospita sponsor ed inserzionisti solo socialmente, eticamente e culturalmente meritevoli.

Nato quasi otto anni fa con il nome Ferraraitalia già con una vocazione glocal, oggi il quotidiano è diventato: Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Non ci dimentichiamo però di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno si fabbrica il giornale. e Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto. 
Oggi Periscopio ha oltre 320.000 lettori, ma vogliamo crescere e farsi conoscere. Dipenderà da chi lo scrive ma soprattutto da chi lo legge e lo condivide con chi ancora non lo conosce. Per una volta, stare nella stessa barca può essere una avventura affascinante.  Buona navigazione a tutti.

Tutti i contenuti di Periscopio, salvo espressa indicazione, sono free. Possono essere liberamente stampati, diffusi e ripubblicati, indicando fonte, autore e data di pubblicazione su questo quotidiano.

Francesco Monini
direttore responsabile


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it