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Che il nostro sarebbe stato il tempo della cultura “Blip” l’aveva profetizzato il futurologo Alvin Toffler nel suo ‘La Terza Ondata‘, trent’anni fa.
La civiltà della frantumazione dove la cultura compatta di una volta, a pancarré, viene fatta a fette, non per essere distribuita, ma perché ognuno se ne appropri per sé, ad uso e consumo del suo non-pensiero, perdendo di unità, di identità e riconoscimento comune, diluendo il collante sociale.
Il luogo del discorso, del ragionamento articolato, le lunghe sequenze di idee collegate tra loro, non abitano più il pancarré fatto a fette dai blip, dagli spot, che anagrammati diventano post.
La cultura come contrattempo, come contrappunto, come intermezzo tra un non-pensiero e l’altro.
È la sensazione che si prova quando si ascoltano le dichiarazioni a pappagallo dei portavoce politici, come se non fossero in grado di formulare un pensiero sensato perché il tempo è troppo poco, è appunto il tempo di un blip. L’identità e l’umanità della comunicazione si perdono nel tono robotico della recita a memoria o della lettura meccanica sul gobbo.
La cultura comune in cui riconoscersi sembra averci abbandonati, abita un altrove da cui il paese risulta sempre più separato e distante.
Ognuno costruisce le proprie categorie concettuali, organizzando i materiali dei propri blip nei casellari della propria mente, standardizzati dai social e dai media. Ciascuno con il suo modello di realtà, costretto a inventarlo e reinventarlo continuamente fino allo stress.
Individualità che crescono nel sospetto e nella diffidenza dell’altro, che militano nella setta dei propri blip. In gioco sono le nostre cittadinanze, la capacità di abitare insieme.
Se la cultura comune non abita più qui, sta lontano dalle culture di rete, mettiamo a rischio la conoscenza reciproca, la capacità di prevedere i rispettivi comportamenti. In gioco è la socialità, come la formazione dei pensieri, i costrutti delle nostre menti. Pensieri e categorie di ragionamento che non riconosciamo più, che non si riconoscono tra loro.
Il problema è ricomporre le nostre frantumazioni, non certo con la nostalgia della massificazione culturale, ma tornando a riconoscerci, diradando le nubi dei sospetti, tornando ai pensieri lunghi, ai discorsi ragionati, ai dialoghi a più voci. Tornando all’ascolto senza che ci sia la necessità né di gridare né di esagerare né di condannare.
Più cresce la frantumazione più è necessario che cresca la cultura diffusa e condivisa affinché il sistema sociale possa funzionare.
Abbiamo bisogno di ambienti intelligenti, il problema della democrazia è oggi un problema di distribuzione delle intelligenze di fronte al pericolo di menti destinate sempre più ad atrofizzarsi.
Ecco perché non ci sono soluzioni alla cittadinanza, se non nel garantire a ciascuno la propria crescita e la dignità di un ruolo utile, attivo e riconosciuto dagli altri, dalla società intera.
Non sono i gusci vuoti dei nostri non-pensieri, dei nostri post ad alimentare il futuro, ma l’intelligenza dei nostri pensieri che trovano il tempo e i luoghi per incontrarsi, per farsi discorsi, ragionamenti articolati, confronti, approfondimenti.
Spazi e luoghi della città, luoghi, e non solo mezzi, dell’informazione, della diffusione delle conoscenze, dei dati su cui costruire i pensieri. La cultura non può essere prerogativa della rete, che resta solo un mezzo e non l’officina del pensiero.
L’officina dei pensieri deve tornare ad avere sede nelle nostre città, dalle piazze alle botteghe, dalle scuole alle università, dai teatri alle accademie.
Ma è necessario che nell’epoca della civiltà dei blip le nostre città sappiano comprendere i pericoli che corrono il significato e la pratica della cittadinanza, ne sappiano cogliere le sfide reinventandosi, non solo per divenire tecnologicamente smart, ma soprattutto per farsi umanamente intelligenti.
La sfida è urgente, non ha tempo d’attendere, non si tratta di ordinaria amministrazione.
In gioco è la cultura che ci rende cittadini, la cultura condivisa di cui il nostro futuro ha enorme necessità, almeno solo per poter essere pensato, sognato, riconosciuto.
Diversamente il futuro anziché essere un orizzonte comune, sarà il terreno di battaglie tra cittadini ridotti a fazioni di blip, spot e post, ognuno a combattere, in solitudine e ostile a tutti gli altri, le sue lotte virtuali per futuri fuori dalla realtà, mandando in frantumi ogni prospettiva di partecipazione e di cittadinanza.

in copertina illustrazione di Carlo Tassi

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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