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Sono mesi, ormai anni che da più parti si batte su questo tasto. Da ultimo ce l’ha detto anche l’ormai mitico Mario Draghi: dobbiamo fare le “riforme strutturali”.
Molto bene, ma quali sono queste benedette “riforme strutturali”? Che cosa si vuole intendere con questa ultratrita formuletta?
Negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso a parlare di “riforme strutturali” era il Partito Comunista, soprattutto la sua componente più “a sinistra”. Serviva a connotarsi sia rispetto ai sedicenti “rivoluzionari”, sia rispetto al troppo morbido “riformismo” di un’altra parte importante del movimento operaio italiano.
Verso la fine degli anni ’80, un grande giurista come Guido Rossi, che fu presidente della Consob, elencò le riforme strutturali che erano più urgenti: ridurre il potere dei monopoli, riformare la Borsa e la legge bancaria, sottrarre le Partecipazioni Statali alla lottizzazione (= spartizione di poltrone) dei partiti, riformare il fisco tassando le attività finanziarie.
Più di recente il concetto di “riforme strutturali” è stato riesumato da parte della cosiddetta Troika (Unione Europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale). Dietro questa nobile terminologia hanno identificato, da qualche anno a questa parte, le politiche di drastico taglio dello stato sociale imposte agli Stati europei più indebitati. Una medicina amara ma necessaria – sostengono – per rilanciare la crescita economica e ridurre l’indebitamento.
Per l’Italia tutto ciò si è tradotto tra l’altro in un violento e repentino peggioramento dei requisiti di accesso dei lavoratori ai trattamenti pensionistici. Ma anche in una revisione delle norme sul lavoro, volte in particolare ad indebolire le tutele della parte considerata più protetta del mondo del lavoro.
Ma la storia non è finita. Il tormentone delle riforme strutturali resta all’ordine del giorno e i grandi mezzi di informazione continuano ad utilizzare senza parsimonia questa formula vetusta.
Però tutto lascia pensare che dietro la sua apparente vaghezza si celi l’intenzione di intervenire ancora una volta, senza molta fantasia, sul mercato del lavoro, imponendo un ulteriore giro di vite alle tutele.
Eppure sarebbe interessante tornare a riempire il concetto di “riforme strutturali” con i contenuti di cui parlava Guido Rossi quasi 30 anni fa. Del resto la crisi drammatica che stiamo vivendo non ha certo avuto origine dalle norme del mercato del lavoro, ma dal sistema finanziario. Sarebbe logico, quindi, che si partisse da lì con le riforme strutturali, per esempio separando – come molti chiedono da anni – le banche di deposito da quelle di investimento, oppure limitando la possibilità di emettere i famigerati titoli “derivati”.
Ma niente, di questo non si parla. Si continua a cercare di far ripartire la nave frustando i macchinisti, invece di occuparsi del motore ingolfato.

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Giuliano Guietti

Laureato in legge, sindacalista, ha ricoperto vari incarichi nella categoria dei chimici Cgil e da ultimo quello di segretario generale della Camera del Lavoro di Ferrara. Attualmente opera in Cgil Regionale Emilia Romagna.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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