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Una settimana strepitosa divisa, o meglio dilaniata, tra esperienze socio-politiche indegne e straordinari momenti culturali.
Tra le prime il tentativo di formare un governo attraverso inciuci che diventano ‘inciucci’ cioè banali e quasi disgustosi tentativi di inciuciarsi che sono condotti da in-ciucci. Tutti sanno nel linguaggio popolare chi sono i ciucci cioè i ciuchi. Quindi un significato da applicarsi al termine è: ‘sostantivo maschile Asino (anche come simbolo dell’ignoranza). Voce imitativa, vedi ciuco. metà sec. XVIII’.
Così i ciuchi per inciuciarsi e lappare in questo modo il latte democratico ottengono una vittoria strepitosa quando esce la sentenza del complotto mafia-stato e viene ribadita la condanna a Dell’Utri, vale a dire allo stesso B. Figurarsi il buon Salvini che fino allora difendeva la verità dei ciuchi e che ora si trova con le mani libere, ma in completa balìa del M5stelle. Così ridendo e scherzando passano sotto gli occhi le nefandezze provocate dalla ‘inciuccità’ a cui ormai tutti sono fatalmente asserviti come un basto addosso ai ciuchi.

Insegnanti dileggiati e asserviti da una violenza giovanile così profondamente radicata da avere solo una spiegazione: l’ignoranza non solo loro, ma dei genitori e anche delle deboli difese che la scuola, un altro e fondamentale basto dei ciuchi, non sa più opporre in maniera decente alla schifezza in cui razzola e s’imputridisce l’universo giovanile. Perfino il buon Michele Serra, stimato compagno di idee, si lascia sfuggire strafalcioni tra scuole per classi sociali alte e scuole da poveri in una sua ‘Amaca’ tutta da dimenticare.
E in città il bullismo colpisce la così detta scuola bene. Una bambina deve trasferirsi per le offese subite, si gettano nei cessi i giubbotti dei compagni tra il colpevolissimo stupore dei genitori.

Sui giornali si legge che a Monfalcone retto da una amministrazione leghista gli operai del cantiere che permette alla città un alto tenore di vita invadono il centro con le tute e siccome tra loro ci sono molti ‘negri’ costoro puzzano. Perché non si fanno la doccia in cantiere? Ci si domanda. Perché la doccia costa, a farla in cantiere, un euro, per cui si va a raggiungere la famiglia in centro con ancora addosso la tuta da lavoro sporca. Per contrapasso si toglie la pedonalizzazione alla via ‘elegante’, si tolgono le panchine per evitare soste indesiderate, non si fa più il parco in centro in cui – non sia mai! – potrebbero giocare i figli di un troppo indesiderato melting people.
Traggo le informazioni da ‘La repubblica’, che non sembra sia stata finora querelata dall’amministrazione della città.

Eppure in questo mondo ignorante la nostra città sforna eventi di altissima qualità che, come al solito, s’infoltiscono in un precipitare di perle culturali che tolgono il fiato e non lasciano tempo alla riflessione. Non c’è tempo per degustare le mirabilia: sotto un altro. E tra raffinatissimi ‘eventi’ degni di capitali nordiche ecco la sagra della birra acida (chissà cosa vuol dire), le vulandre, i banchetti e i palchetti e l’apertura di un altro segmento del parco dedicato ad Abbado a cui veramente mi è dispiaciuto, causa Ariosto, rinunciare ad assistere.
Una vera joie de vivre.
Arriva in città ospite del Meis e della sua solerte direttrice Simonetta della Seta nonché del presidente Dario Disegni il grande regista israeliano Amos Gitai onusto di premi. Dal suo profilo si apprende che: “Il padre di Amos Gitai era un ebreo tedesco, architetto del Bauhaus, fuggito dalla Germania nazista nel 1934; sua madre era nata nella Palestina britannica da genitori di origine russa immigrati all’inizio del secolo. Gitai partecipa come riservista alla guerra del Kippur del 1973, nel corso della quale sopravvive all’abbattimento dell’elicottero su cui viaggiava. Proprio durante i voli in elicottero perfeziona la qualità delle sue riprese con la Super 8”.

Il suo atteggiamento critico verso la politica israeliana gli procura una dura contestazione che lo induce a trasferirsi a Parigi per poi recentemente far ritorno in Israele. La complessità del suo lavoro, anzi dei suoi molteplici interessi, tra cui spiccano quello di regista e architetto, lo induce a interessarsi a un progetto che gli sottopone la grande attrice Isabelle Huppert: quello che si riferisce alla possibile realizzazione di un film su di una straordinaria personalità quale Doña Gracia Nasi, la donna d’affari rinascimentale che scelse la città estense per tornare alla propria cultura madre, l’ebraismo. Sarebbe troppo lungo ripercorrerne la vita. Basti qui ricordare come la sua qualità di banchiere del duca Ercole venne ricompensata con il dono di palazzo Magnanini ora Roverella, ultima opera di Biagio Rossetti. Poi la potenza della signora si estese all’area mediterranea fino a diventare banchiere di Solimano il magnifico a Istanbul e concludersi con il suo trasferimento finale sul Lago di Tiberiade nella terra promessa. Il caso e le pieghe della storia hanno voluto che la vita di Gracia Nasi venisse raccontata in un libro fondamentale pubblicato da Olschki, ‘La nazione ebraica spagnola e portoghese di Ferrara’ di Aron di Leone Leoni, a cui demmo rilievo e pubblicità l’amico carissimo Paolo Ravenna e chi scrive, allora presidente dell’Istituto di Studi Rinascimentali, L’incontro con il regista e la possibilità che, attraverso l’illustrazione dei luoghi deputati di Ferrara, possa concludersi in molte riprese nella città e non solo nello studio di Cinecittà si è concluso con la proiezione di un magnifico film di Gitai, ‘Tsili’, tratto da un racconto di Appenfeld, il grandissimo scrittore israeliano a cui si riferiscono i protagonisti di questa storia ebrea e ferrarese, Amos Gitai e il suo amico Alain Elkann.

Non passano 24 ore ed ecco che sono chiamato a testimoniare sulla conoscenza del nostro Leopoldo Cicognara del filosofo Kant e della sua idea di sublime. Dici niente! Approdo a Venezia in una giornata a dir poco memorabile e lì incontro all’Accademia amici e colleghi tra cui Sergio Givone il grande estetologo che tiene una conferenza sul concetto d’infinito in Leopardi e nel pittore Friederich. Appare in luce nuova la qualità di conoscitore del conte ferrarese Cicognara negli anni neoclassici primo presidente dell’Accademia di Venezia.

Grande attesa poi per la rappresentazione teatrale di uno dei capolavori della musica barocca al Tetro comunale, ‘Esther’ di Georg Friederich Haendel. Una lotta con un gigante e con uno dei testi più difficili da eseguire. Eppure la sfida è stata vinta in quanto dopo un primo tempo un po’ deboluccio nella seconda parte si è assistito a una straordinaria performance attribuibile soprattutto a Marco Bellussi – regista – e al coro dell’Accademia dello Spirito Santo di Ferrara diretto da Francesco Pinamonti. Ancora una battaglia vinta e dalla politica del Teatro comunale Abbado e dalle nostre forze culturali

Infine ieri l’apertura della mostra dei cimeli ariosteschi alla Biblioteca Ariostea alla presenza della presidente delle celebrazioni per il centenario Lina Bolzoni della Scuola Normale di Pisa, organizzata dal valentissimo direttore (purtroppo ancora per poco) Spinelli e dalla sua bravissima collaboratrice Mirna Bonazza. La sala era al completo e non a caso il titolo della mostra dava ragione all’eternità nella storia, direbbe Foscolo! Quel che mi ha impressionato era la gente, tanta, e una bambina, Anna, di 5 anni, figlia di un relatore a suo agio con l’Ariosto, che ha resistito per due ore ai discorsi dei relatori. Alla fine le ho fatto un sacco di ‘facce’ per premiarla della sua costanza. E Ariosto+bimba è stato un mix meraviglioso.
Così il titolo della mostra ‘Ariosto per sempre Ariosto’ era ed è indicatissimo soprattutto nell’asserzione mediana: per sempre.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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