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Vite di carta. Imperdonabile

Mentre Chris Lynch risponde alla domanda di Alice e dal palco guarda la sua interlocutrice e ogni tanto noi della platea, mi sento piccola piccola di fronte a questo autore che parla inglese. Capisco solo alcune parole, mentre i ragazzi annuiscono e afferrano al volo il senso della risposta; Alice ride un attimo prima che lo faccia il pubblico. Io, insieme a pochi altri, aspetto a ridere a mia volta, dopo che l’interprete, la bravissima Marina Astrologo, ha tradotto per i “non intendenti”, come avrebbe detto Galileo.

E’ questo il quadro che mi è rimasto in mente. Siamo nel giardino interno di Palazzo Roverella a incontrare il noto scrittore americano il cui romanzo, Inexcusable, finalista per il National Book Award degli Stati Uniti per la letteratura dei giovani, è stato tradotto in italiano da Chiara Reali per Il Castoro, più di dieci anni dopo la sua uscita. Il tema che vi è trattato resta molto attuale, tuttavia. È il 4 ottobre 2019, venerdì, e gli eventi di Internazionale a Ferrara sono appena cominciati. Sarà l’emozione, ma tutti mentre aspettiamo l’autore e l’interprete sentiamo fresco, il primo fresco così carico di umidità che a Ferrara conosciamo bene.

Con qualche minuto di ritardo l’incontro ha inizio. Siedo con le due colleghe e amiche in prima fila, perché potrebbe esserci bisogno di noi. I ragazzi del gruppo che ha preparato la conversazione con Lynch siedono sul palco accanto a lui, lo guardano con attenzione e a turno con gli occhi cercano noi. A loro serve sapere che ci siamo, anche se hanno lavorato a tutte le fasi della preparazione dell’incontro, sanno tutto sul libro, ma vogliono condividere il momento e sentirsi appoggiati. Siede sul palco anche la psicologa, che ha collaborato con noi per alcune domande da porre al nostro ospite.

Incomincia l’incontro e io sono a mio agio. Sento annunciare i nomi dell’autore e dei ragazzi: Alberto, Alice, Benedetta, Rebecca, Francesca e mi sento arrivata a un altro traguardo. Faccio presto a dire di che traguardo si tratta: siamo fuori dall’aula, siamo in questo luogo pubblico della città e partecipiamo al festival del giornalismo che dal 2007 viene ospitato a Ferrara. Significa che i ragazzi e noi tre docenti abbiamo avuto contatti con gli organizzatori dell’evento, con la psicologa che ci ha offerto la sua chiave di lettura del romanzo, con l’interprete che apprezziamo da anni perché la incontriamo regolarmente a Mantova, quando lavora agli incontri di grande richiamo e noi facciamo come volontari il servizio agli eventi del Festivaletteratura. Vuol dire anche che abbiamo lavorato di pomeriggio per discutere sul romanzo di Lynch, per fare ricerche insieme, formulare e assegnare le domande da porre all’autore. Siamo del gruppo Galeotto fu il libro, siamo ‘galeotti‘.

Ancora: significa che sta continuando la collaborazione con la casa editrice Il Castoro. Ho tra le mani, infatti, la copia staffetta di Imperdonabile, su cui ho lavorato ed è piena zeppa di appunti rigorosamente a matita. Non mi sono tenuta una copia di quelle ufficiali, che in seguito sono arrivate dal Castoro, con le brevi recensioni di due nostre ragazze stampate nei risvolti di copertina. Sì, perché negli ultimi due anni abbiamo lavorato anche così. I ragazzi hanno rivestito il ruolo di lettori anche con questa ufficialità, potendo sperare che il loro breve commento venisse pubblicato. E ne erano elettrizzati. Che bella occasione avere qui l’addetta dell’Ufficio Stampa della casa editrice, ritrovarci qui in tanti, ognuno col suo pezzo di lavoro: autore, editore, lettori e traduttori. Scuola e territorio. Narrativa e giornalismo presentati al pubblico.

Non ho ancora parlato del libro. L’ultimo di cui ci siamo occupati della serie young adult che Il Castoro ha proposto nella collana Hot spot.  Proveniamo dalla lettura di altri due titoli, di cui uno dedicato ai temi della violenza contro le donne e alla colpevolizzazione della vittima (Louise O’Neill, Te la sei cercata, 2018) e l’altro incentrato sulla identità di genere e sulla emarginazione che ne deriva per gli adolescenti che vivono il problema (Lisa Williamson, L’arte di essere normale, 2017). Questo romanzo di Lynch è particolare per il punto di vista che assume, quello cioè del colpevole. Infatti è Keir, il protagonista e l’autore della violenza, a ricostruire il proprio ambiente familiare e quello della scuola nella provincia inglese in cui è cresciuto, fino ad arrivare al giorno del diploma. A mettere insieme i pezzi dell’ultima notte, quella della festa per i neodiplomati, quella in cui dopo molto alcol e molte peripezie ha violentato la ragazza del suo cuore, la deliziosa Gigi che però è la ragazza di un altro. Lei gli rinfaccia la violenza, lui nega. Dice di volerle bene e di non avere usato la forza.

L’utilizzo della prima persona e di un linguaggio giovanile piuttosto cinico, che ricorda quello inconfondibile di Il giovane Holden di J.D.Salinger, lascia presto intravvedere l’infanzia di Keir con la perdita prematura della madre, la sua crescita senza la vera guida del padre che è debole e disperato per la morte della moglie.

I ragazzi affondano le prime domande a Lynch su questi aspetti e lui risponde che i libri non vanno troppo spiegati. Tuttavia accetta di entrare nel suo laboratorio di scrittore; conferma di avere volutamente affrontato una tematica  attuale da una angolazione particolare. Col suo libro, di cui sta per scrivere il sequel, ha voluto rispondere a Speak di Laurie H. Anderson, il romanzo uscito nel 1999 in cui è la vittima, Melinda, a raccontare in forma di diario il trauma della violenza che ha subito alla festa di fine estate, in seguito alla quale è incapace di comunicare con le parole. Lynch ha costruito, in risposta al dramma di Melinda, il racconto di sé che fa Keir e che incomincia così: “Sono un bravo ragazzo. I bravi ragazzi non fanno cose brutte. I bravi ragazzi capiscono che no vuol dire no, e quindi è impossibile che abbia fatto questa cosa perché io capisco, e amo Gigi Boudakian”.

Che dire di uno così? Le domande dei ragazzi si spostano sulla figura del padre, sulle sorelle e sugli amici di Keir, citano parti del libro, ritrovano gli episodi di aggressività di cui è stato protagonista in passato, le volte in cui ha provato la droga. Prendono il finale, che avviene nella camera d’albergo dove è avvenuta la violenza: Gigi sta per uscire dalla porta con le scarpe e la borsa tra le mani e Keir conclude: “Mi giro sull’altro fianco, contro la parete di cemento, e aspetto chiunque stia venendo a prendermi”. Il finale resta aperto; da lettori abbiamo proposto almeno due ipotesi sulla consapevolezza di Keir, che sembra finalmente voler affrontare le conseguenze del suo comportamento e al tempo stesso si gira contro il muro in segno di chiusura. I ragazzi le riferiscono all’autore e naturalmente al pubblico. Da Lynch viene una risposta, la sua: ha voluto rapportarsi a Speak mostrando che il colpevole è un debole; in questo senso Keir rappresenta “un esperimento protratto di non assunzione della responsabilità”. Lo scrivo con la matita sulla mia copia e penso meno male che non voleva parlare troppo del suo romanzo…

Poi viene la fine anche di questa conversazione. Una delle battute finali di Lynch è per ribadire che ha apprezzato le interpretazioni sul finale, che il lettore è libero di reagire alle storie e ai testi che ce le regalano, che i libri nascono – che il suo libro è nato – per suscitare il dibattito.
Ringrazia i ragazzi e fa loro i complimenti per la profondità della loro lettura; seguendo il loro sguardo guarda noi che sediamo in prima fila col libro tra le mani. Ho un piccolo brivido, perché Teachers è una parola che perfino io conosco.

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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