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Vite di carta. Io Khaled vendo uomini e sono innocente

Io Khaled vendo uomini e sono innocente è un libro duro. Oggi l’ho scelto per questa rubrica, perché può essere benissimo un libro d’occasione, nel senso che ben si attaglia al quadro confuso e tragico in cui stiamo vivendo. E’ un libro che parla della situazione attuale in Libia, di scafisti e di barconi carichi di ‘negri’, che partono verso l’Europa.

Quando lo scorso settembre Francesca Mannocchi, l’autrice, ne ha parlato a Mantova in un evento molto partecipato del Festivaletteratura e mi ha colpito questa sua frase: “Dobbiamo alzarci al mattino e pensare ad affrontare la complessità, dobbiamo fare ginnastica mentale per essere in grado ogni giorno di affrontarla”.

Lei e l’altro giovane giornalista Lorenzo Tondo stavano completando il proprio intervento su due situazioni piuttosto calde in terra d’Africa e su aspetti poco conosciuti del fenomeno migratorio; a quel punto Mannocchi ha ribadito quali risposte ha tratto dalle sue inchieste.

Sono risposte soprattutto sul metodo che deve supportare un buon giornalismo. Non semplificare, avvicinare la complessa situazione della zona in cui si sta lavorando con occhi aperti su diversi punti di vista. Nutrire dubbi, fermarsi a riflettere sui nodi irrisolti. Non semplificare ciò che semplice non è. Succede anche troppo in giro per i media.

In effetti, quando ho letto il libro su Kahled il trafficante, per lavorarci con una mia classe e quando ne ho discusso con i ragazzi in due recenti lezioni on line, ho trovato davvero impegnativa la recente storia della Libia. Khaled, che narra la propria parabola di rivoluzionario per abbattere Gheddafi prima e di trafficante poi, gira lo sguardo intorno a sé e mette a fuoco i diversi soggetti che brulicano nella Libia del dopo Gheddafi.

Tutti alla accanita ricerca di pane e denaro. Di armi. Di potere. Molti con l’atteggiamento del camaleonte, che cambia vestito a ogni nuova stagione della Storia. Difficile dire chi ora governi davvero il popolo libico: il governo di accordo nazionale guidato da Serraj e riconosciuto dall’ONU, o l’esercito nazionale di Haftar, oppure le milizie tribali, che provengono dalla coalizione dei ribelli a Gheddafi e che continuano a scontrarsi duramente.

Ancora più difficile tracciare il discrimine tra bene e male. Come ha osservato Giorgia, “In Libia a definire l’innocenza non è un principio etico”. Ha ben compreso ciò che Mannocchi ha detto a lei e ai suoi compagni, incontrandoli lo scorso dicembre al teatro San Benedetto; dagli appunti che mi ha passato Giulia leggo infatti: “Chi è un adulto occidentale cataloga il bene e il male, ma in questo caso ci sono molteplici scale di grigio”. Difficile orientarsi e decodificarle.

In un quadro come questo, è colpevole Khaled, il trafficante di migranti? Lui si definisce innocente: un figlio della Libia, che sta pagando a caro prezzo la presa d’atto del fallimento dei rivoluzionari come lui. Organizza barconi carichi di negri per l’Europa, ma si ritiene un figlio del deserto più che del mare. Rievoca l’educazione avuta dal nonno, mentre prova disprezzo per il padre a causa dei i suoi rapporti con il regime. E il nonno lo ha messo in guardia sulla voracità del mare, che vuole le sue vittime.

Sono tanti i morti in mare, i caduti dai barconi dopo mesi di attesa in terra libica, chiusi in vere e proprie carceri tra stenti e torture. Khaled organizza la loro partenza e intasca i loro soldi; pensa che smetterà, quando avrà messo da parte il denaro per comprarsi una casa a Istanbul. Non è tra i più spietati, anche se ha dovuto imparare a non sentire più niente verso i migranti che partono, verso le loro storie disperate. È deluso dalla corruzione che c’è nel suo paese, dal dopo-rivoluzione gattopardesco, che ha eliminato di scena Gheddafi, ma non la sete di potere dei diversi soggetti che si contendono il controllo sul paese.

In definitiva, come possiamo noi lettori rapportarci a Khaled? Margherita e Zoe hanno scritto che il lettore con la sua “comoda coscienza” fatica a prendere il largo dalla sua minuscola vita e a stabilire se Khaled sia il carnefice o la vittima. Simone d’altra parte ha concluso la lettura del libro, provando un brivido e finisce il suo intenso commento dicendo: “Solo alla fine del libro si può capire davvero chi è Khaled: uno scafista sì, ma prima di tutto un uomo!”

Questi ragazzi del quarto anno di liceo hanno diciotto anni. Hanno sentito pronunciare da noi insegnanti chissà quante volte la parola ‘complesso: “è un problema complesso”,” la complessità del quadro culturale” e cento altre espressioni simili. Bene, ora sono immersi dentro una fase complessa della loro s(S)toria.

La lettura di Io Khaled vendo uomini e sono innocente è nata come una iniziativa della scuola rivolta al libro che ha vinto l’ultima edizione del Premio Estense. I ragazzi hanno messo in campo la loro sensibilità e, perché non dirlo, la fatica di leggere un libro come questo. Hanno ascoltato me che avevo già incontrato l’autrice, hanno incontrato lei e l’hanno ascoltata parlare della Libia ed anche della sua professione di reporter.

Voglio credere che in un’attività di questo tipo abbiano fatto ‘ginnastica mentale’ e si siano allenati almeno un po’ ad affrontare la ‘complessità’ nel metodo prima che nel merito, come ha indicato Francesca Mannocchi, ponendo e ponendosi domande. Da un libro alla realtà che hanno intorno non è cosa facile. D’altra parte la competenza ad affrontare nuovi problemi passa anche dalla conoscenza di quadri vicini e lontani da noi, dalla lettura, specie se condivisa e messa come oggetto di discussione. La competenza passa dalla scuola, dai libri.

Non posso dimenticare quello che, sempre a Mantova lo scorso settembre, ha detto Michela Murgia durante la presentazione del libro-capolavoro di Valeria Luiselli, Archivio dei bambini perduti. Un libro che restituisce la migrazione dei bambini dell’America centrale verso gli States col respiro grande dell’epica, l’epica di questo nostro tempo. Un libro che per temi e struttura e profondità dello sguardo io giudico un capolavoro.

Michela Murgia ha fatto emergere dalla conversazione con l’autrice il valore di un racconto, che rende giustizia a una realtà poco studiata, non raggiunta da certo giornalismo frettoloso e semplificatorio, dai servizi televisivi che mostrano una carrellata di migranti ‘a volo di uccello’; poi ha fatto un pausa, ha fissato il pubblico e ha detto: “Fidatevi della letteratura”.

Consigli di lettura:

  • Francesca Mannocchi, Io Khaled vendo uomini e sono innocente, Einaudi Stile Libero EXTRA, 2019
  • Lorenzo Tondo, Il Generale, La nave di Teseo, 2018
  • Valeria Luiselli, Archivio dei bambini perduti, La Nuova Frontiera, 2019

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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