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Protagonista negli anni’ 70 e ’80 per la poetica sperimentale a Ferrara (e non solo, stagione di Luci della Città di S. Tassinari, della Poesia Visiva di M. Perfetti, L.Arbizzani, F. Manfredini e R. Trentini, della videopoesia di G. Toti, della scrittura anche verbovisiva di G. Berengan e M. Roncarà, del Teatro Nucleo nascente di C. Herrendorf e H. Czertok, del Centro Video Arte, dell’arte e-o la parola “rivoluzionaria” già di G. Testa e lo stesso M. Felloni) quando la Parola era ancora una Mappa non molto diffusa, a differenza del liquidismo non stop degli ultimi anni..: ovvero Pier Luigi Guerrini, poi dagli anni dieci del duemila ritornato in pista, sempre coerente con la sua scrittura di ricerca, anche sociale, ma mai banalmente tardorealista, sullo sfondo sempre l’archetipo del nuovo e del futuro, dall’immaginario.

D – Pier Luigi Guerrini, protagonista poetico a Ferrara negli anni ’70/80, un memo?
R – Nel 1978 esce una piccola collettanea di poeti ferraresi di nascita o d’acquisizione. “Biottica delle parole superstiti”, questo era il titolo, nelle intenzioni degli ideatori doveva essere una rivista di poesia e critica letteraria ma, come spesso accade e non solo nelle situazioni di provincia, si fermò al primo numero. Al suo interno, c’era tra gli altri Alberto Poggi che ideò assieme a me la rivista “Po/etica/mente”, come testimonia un ciclostilato di due pagine con cenni poetici “mescolati” a spunti progettuali. Poi, il percorso di questa rivista prese una strada differente. “Poeticamente” si ricompose in un’unica parola e la redazione di fondazione (1980), sotto la direzione responsabile di Lamberto Donegà, vide la presenza di Emanuela Calura, Pier Luigi Guerrini e Roberto Guerra, oltre in seguito gli stessi C. Strano e il francese M. Kober. La rivista venne diffusa in una rete di piccole librerie militanti dell’area della nuova sinistra e, dopo alcuni numeri in cui si pubblicavano diversi interventi in prosa o in poesia di vari autori, si scelse la strada dei numeri monografici. Nel 1984 pubblicai, per le edizioni Ottantagiorni, il libro di poesie “Il fenomeno scomposto” e, l’anno dopo, in “Trame della parola”, Ed. Tracce, una piccola antologia poetica curata da Antonio Spagnuolo. Poi, pur continuando a scrivere parecchio, ho scelto di viaggiare poeticamente sotto coperta. Ho, invece, lasciato molti segni di stampa collegati da vicino ai percorsi lavorativi intrapresi (giovani, tossicodipendenze, disabilità). La mia produzione poetica è riemersa con decisione solamente dal 2010 in avanti.

D – Qual è il tuo pensiero sulla poesia sperimentale, oggi?
R – Il mio non è un osservatorio dall’interno. Scrivere poesie, riflettere su questo strumento espressivo/comunicativo/creativo non significa avere “sotto controllo” o conoscere lo stato dell’arte poetica sia lineare che visivo-sperimentale. Colgo emersioni improvvise d’interesse sull’esperienza fantastica del Centro Video Arte di Ferrara e di tutto quello che vi si mosse intorno, ad esempio, poi cala di nuovo il silenzio. A proposito di quella bella e innovativa esperienza, ricordo quanto affermava nel 2001 la coordinatrice Francesca Gallo. “Negli anni ’70 e ’80 il Centro Video Arte è stata una struttura pionieristica nel panorama culturale italiano, proprio perché ha sostenuto e promosso non solo la conoscenza di questo linguaggio artistico in Italia, ma soprattutto per il suo impegno militante a fianco di sperimentatori che grazie a quel supporto (non solo logistico ma anche professionale e critico) hanno potuto produrre videotape e videoinstallazioni anche nel nostro paese, senza dover aspettare le borse di studio giapponesi o americane”. Io credo che ci sia ancora molto bisogno di sperimentare nella/con la parola. Penso sia un bisogno che non dovrebbe mai scomparire. Un bisogno di pensiero differente! Una parola fatta di suoni larghi, sintetici, di spazi/silenzi, di corse al rallentatore, di istantanee da rischiare anche se dovessero uscire “sfuocate”. Una parola che si trasforma in immagini. Una sperimentazione non accademica che non si arrenda ad una comunicazione che si concede troppo spesso alla velocità, alla “superficialità” e fatica a lasciare tracce significative, solchi. Una poesia che si presenta sempre più spesso sotto forma (e sostanza!) di chiacchiera dove “le parole non misurano niente, fanno giri inutili, mancano deliberatamente ogni bersaglio” (Tadini). Iosif Brodskij scriveva che “la poesia è anche l’arte più democratica – comincia sempre da zero. In un certo senso, il poeta è davvero come un uccello che canta senza guardare al ramo su cui si posa, qualunque sia il ramo, sperando che ci sia qualcuno ad ascoltarlo, anche se sono soltanto le foglie”.

D- Nuovamente operativo nel duemila. I tuoi lavori?
R – Dal 2010 ho ripreso a pubblicare su alcune riviste on line e blog come, ad esempio, “Poetrydream” di Antonio Spagnolo. Nel 2014 ho realizzato l’ebook “In prosa per la foto”, Isnc Edizioni. Poi, ho pubblicato in numerose antologie tra cui:“Homo Eligens”, a cura di I. Pozzoni, deComporre Ed., 2014; “Sentire”, n. 44, Pagine s.r.l. Ed., Roma, 2014; “Chorastikà”, a cura di I. Pozzoni, Limina Mentis Ed., 2015; “Bustrofedica”, a cura di I. Pozzoni, Limina Mentis Ed. 2016; “XXXIV”, a cura di I. Pozzoni, Limina Mentis Ed., 2017.

D – Come definiresti la tua poesia?
R – Per usare un linguaggio terminologico familiare a Deleuze, la mia è una ricerca costante tra il piano “virtuale” (che attiene ambiti quali la memoria, il sogno, le immagini del profondo, il fantasy) e un piano “attuale”, di contestualizzazione, di immersione nella quotidianità. Una poesia visuo-sociale, se mi è permesso definirla così.
Spesso, nell’esplorare i significati, le parole che diano il senso più vicino a quello che senti, c’è come uno svasamento dei bordi, un’interpenetrazione di tracce. Si cercano rimbalzi armonici e disarmonie. Sembra quasi di ricercare un senso fuori da un contesto qualsiasi, alla continua ricerca di un incontro tra ciò che si vede e ciò che si sente. Oltre ogni contesto conosciuto e/o di cui si è fatta esperienza.
In altre parole…

la lingua langue silenziosa
si genuflette riflessiva
accorpa pensieri, immagini, sogni
facendo ricorso
ai ricordi di ogni.

D- Pier Luigi, Ferrara città d’arte o anche mito e panem et circenses, visti i tempi liquidissimi anche in città?
R – Gli esempi di vivacità culturale ci sono anche in una piccola città di provincia com’è Ferrara ma il linguaggio poetico stenta a bucare la crosta del panem. Causa la crisi economica e sociale che mette giustamente in testa il problema drammatico della mancanza di lavoro e di un futuro non solo per i giovani, a cui si aggiunge una classe politica che sembra non sapere in quale…verso dirigersi, dove orientare il proprio interesse perché composta anche di personale che non ha in agenda valori quali la solidarietà, l’umiltà e la competenza. Un personale politico che sceglie sempre più di rado tra gli operatori culturali dell’associazionismo disomogeneo ma competente. La tendenza, parere ovviamente personale che non pretendo sia condiviso, è verso un’autoreferenzialità politica rassicurante. La scorciatoia del pressapochismo è un mantra quotidiano. Una superficialità che, in assenza di preparazione culturale, si affida anche inconsapevolmente a forme di cinismo, snobismo o si rivolge ad improvvisati operatori culturali. Una cultura del “mi piace/non mi piace” con allegato l’indispensabile emoticon.

D – Quali progetti per il futuro?
R – Sto ultimando il mio secondo libro di poesie che dovrebbe vedere la luce entro l’anno. Inoltre, assieme all’amica Laura Fogagnolo abbiamo intenzione di pubblicare un lavoro suddiviso in due parti. Nato come contributo/ ricordo postumo al poeta ferrarese Marco Chinarelli, precocemente scomparso negli anni ottanta (ricordo un quaderno monografico con alcune sue poesie uscito nel 1988 per le edizioni Poeticamente), abbiamo ritenuto potesse essere una cosa interessante fare una rilettura/riflessione degli anni ’70-’80 a Ferrara e provincia dal punto di vista culturale ed artistico, coinvolgendo alcuni protagonisti privilegiati di quel periodo.

Info:
http://www.poetipoesia.com/pier-luigi-guerrini/

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Roby Guerra

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

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