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Non è trascorso nemmeno quel ragionevole lasso di tempo che permette di metabolizzare paura, danni, e triste scia di pesanti conseguenze della recentissima catastrofe alluvionale nel nostro Paese, che sono già attivi i pellegrinaggi dei curiosi sui luoghi dell’evento, organizzati e decisi a visitare i luoghi più colpiti. Già il giorno seguente, senza perdere tempo prezioso, girano tra rovine, scempi naturali, persone disperate e scosse, testimonianze del violento evento, sentendo l’adrenalina addosso e l’intensa sensazione di essere stati baciati dalla fortuna, invulnerabili, forti rispetto chi è stato toccato dalla tragedia. Fuggono dalla normalità per imbattersi nell’eccezionalità.

E’ un piccolo spaccato che rientra per analogia nel fenomeno attualissimo del cosiddetto ‘turismo della tragedia’, ‘turismo del dolore’, ‘black tourism’, oppure ‘turismo dell’orrore’ o ancora ‘thanaturismo’ (dal greco Thanatos, morte), un turismo malato e degenerato che mette in discussione il confine morale del visitatore che si reca nei posti del macabro, consumando questo tipo di cupa esperienza, manifestando entusiasmo di fronte ad eventi che riconducono a una estrema sofferenza umana.
La morte e la distruzione diventano un mercato di nicchia, dove la morbosità non ha nulla a che vedere con la sana voglia di conoscere e approfondire, la voglia di ricordare e la curiosità che porta alla scoperta e alla crescita personale. Il filosofo Gabriel Marcel affermava che il turismo nero è “il piccolo sporco segreto dell’industria turistica, che trasforma la morte in vacanza e spettacolo”. Viaggi ed escursioni in luoghi teatro della morte di massa come Auschwitz, in campi di battaglia (dark conflicts sites) come Pearl Harbor, Omaha Beach, Gettysburg, Sarajevo, Waterloo, in ex carceri ed ex tribunali come Robben Island e Alcatraz, in siti di disastri naturali (disaster tourism) come il Vajont, Stava, Rigopiano. Un lunghissimo elenco di località legate a infausti eventi, la nuova frontiera e il discutibile enorme bacino delle emozioni. Si accorre all’isola del Giglio per ammirare il relitto della nave Costa Concordia, ammasso di ferraglia, il cui naufragio è costato la vita a 32 passeggeri; ci si prenota per un tour verso il punto in cui il Titanic affondò in quell’aprile del 1912: 1309 turisti – l’esatto numero dei passeggeri d’allora – che indossano abiti d’epoca, consumano gli stessi pasti di quella traversata, ascoltano la stessa musica in attesa del brivido finale nel momento della immaginata collisione con l’iceberg.

L’attrazione umana verso l’ignoto, il proibito, il cruento non è cosa nuova e lo dimostrano i turisti guidati dalla voglia di andare oltre la rappresentazione e le narrazioni fornite dai media, nel tentativo di provare in prima persona emozioni forti, attraverso la spettacolarizzazione del dolore. Da un lato i guardoni, dall’altro gli sprovveduti, convinti di tornare a casa più acculturati. Frotte di gente desiderosa di immergersi negli avvenimenti infausti approdano a Cogne, Avetrana, Perugia, riempiendosi la bocca di saccenti constatazioni sul piccolo Samuele, sulla giovane Sarah Scazzi, sulla povera Meredith Kercher o, spaziando oltre confine, spìano bramosi di emozione, i luoghi e gli edifici dei serial killer o assassini a Milwakee, a Londra sulle tracce di Jack lo Squartatore, a Dallas nella simulazione, turisticamente perfetta, del delitto di J.F. Kennedy, dove si percorre lo stesso tragitto su un’auto, assumendo ruoli e parti, nel tentativo di toccare l’apice del sensazionale.
Per gli amanti del ‘turismo nucleare’ c’è poi l’eccitante visita col contatore geiger in mano, alla città fantasma di Chernobyl, dove le radiazioni raggiungono ancora livelli pericolosi e l’impressione dell’abbandono di case, strade, presenza umana, è un pugno allo stomaco. E se non è il viaggio in Bielorussia, devastata per sempre dalle radiazioni, è quello a Fukushima, Giappone, dove, attraverso post su Facebook e foto su Instagram, popolati di selfie e didascalie prese direttamente da ‘aforismi per tutti’, gli avventurosi eroi del nostro tempo registrano, immortalano e rendono eterni i disastri dello tsunami che ha messo in ginocchio quelle isole e compromesso gravemente la centrale nucleare con le ricadute irreversibili del caso. ‘Turismo nucleare’ anche in Kazakistan, uno dei luoghi più colpiti al mondo dalle sperimentazioni atomiche. Uno dei cosiddetti “-stan” dell’impero sovietico: Uzbekistan, Turkmenistan, Tajikistan, Kirgisistan. Un paesaggio devastato dalle sperimentazioni di armi atomiche in cui è nato il ‘Lago atomico’, un profondo cratere procurato da un’esplosione, colmato da un’acqua radioattiva verde smeraldo. Una testata atomica dieci volte più potente di quella di Hiroshima, una superficie liquida in cui qualche turista si tuffa, nuotando solo in superficie secondo raccomandazioni, per sfidare la sorte.

Il ‘turismo noir’ è diventato una scommessa globale perché, a dirla con il sociologo Durkheim, quando la produzione culturale di una società aumenta di intensità e problematicità portando a nuove visioni del mondo, si crea una profonda instabilità e questo fa nascere nell’uomo l’interesse per qualcosa di diverso, lontano dal ‘normale’, anche se si tratta di eventi tragici, portando a uno stato di effervescenza. Ecco perché nei Messico Tours, i partecipanti sono disposti a ripercorrere l’esperienza degli immigrati che tentano di entrare negli Usa dopo peripezie di ogni genere, in balia delle organizzazioni, avvicinandosi alle loro emozioni estreme davanti al rischio, e sono altrettanto disposti (pagando cifre tutt’altro che insignificanti) a percorrere i tracciati simulati dei narcotrafficanti colombiani di Medellin, con agguati, suspance e storie che porteranno a casa come souvenir da raccontare per una vita intera.
La Cambogia, il selvaggio west del Sudest Asiatico, con i suoi ‘Killing Fields’, i ‘Campi della morte’; la Birmania, terra di turismo di frontiera e scoperta dopo la sua emancipazione dalla dittatura ferrea, nel recente 2015; l’Indonesia con i suoi insoliti rituali, sacrifici e selfie accanto a presunte mummie resuscitate, sono icone di quel turismo globale che si sta diffondendo con pretese di scoperta e conquista dell’ignoto, animato esclusivamente da ciò che Halley sosteneva: “Il dolore è il nuovo oppio delle masse e ne abbiamo una vasta gamma a disposizione”. Il nuovo passatempo della società occidentale, che attecchisce per la propensione a questa formula ed è favorito da una cultura mediatica violenta che influenza e orienta.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

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Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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