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26 Luglio 2020

Ayasofya

Tempo di lettura: 3 minuti


Santa Sofia – in lingua turca Ayasofya – non è mai stata ‘solo’ un museo: molti di noi che l’hanno ammirata percorrendone gli spazi, che hanno sostato col capo rivolto alla cupola e ai giganteschi medaglioni circolari in nero e oro, che si sono soffermati su ogni  particolare, hanno sicuramente respirato un’impalpabile aria di religiosa presenza, di sacralità, di solenne luogo di culto che non l’ha mai abbandonata nei tormentati capitoli della sua storia e negli avvicendamenti tra religiosità e laicità. E’ uno di quei rari luoghi destinati a conservare nei propri muri una spiritualità che nessuna riconversione legata alla sua destinazione e funzione potrà mai scalfire.

Non è solo uno dei più potenti simboli di Istanbul e della Turchia: è una presenza in cui chiunque legge miscugli di popoli e religioni e ne riconosce un proprio capitolo. E’ stata la casa di ortodossi, cristiani, musulmani, ottomani, bizantini, romani, crociati, studiosi mediorientali, architetti e manovalanze greche e svizzere, e ne stiamo ancora parlando da quando, il 10 luglio scorso, il presidente Recep Tayyip Erdoğan, con decreto presidenziale, l’ha dichiarata nuovamente aperta al culto islamico, togliendole lo status di museo.
La basilica di Santa Sofia, nota anche come Santa moschea della Grande Hagia Sophia, celebra il culto di Sofia o Sonia, nell’agiografia ufficiale matrona cristiana di origine italica, forse milanese, vissuta nel II secolo, sposa del senatore Filandro e madre di tre figlie dai nomi altamente simbolici: Fede, Speranza e Carità (Pistis, Elpis, Agape).
Alla morte del marito si dedicò al proselitismo e donò i suoi beni ai più bisognosi, attirando accuse di istigazione e adorazione di idoli. Le venne impresso sulla fronte il marchio dell’infamia e le tre figlie vennero decapitate davanti a lei per non aver abiurato rinnegando Cristo. Sofia fece seppellire i corpi delle sue creature a Roma, al 18°milio della Via Aurelia e dopo tre giorni, piangendo e pregando sul posto, morì lei stessa. L’iconografia la rappresenta come una donna vestita a lutto, una madre  che protegge le figlie con il suo mantello.

Un culto sopravvissuto anche là dove il Cristianesimo ha subito eventi storici comuni legati all’epoca, come  Kiev, Novograd, Salonicco. Dal 537 al 1453 fu cattedrale cristiana cattolica di rito bizantino e successivamente ortodossa, con un intervallo tra il 1204 e il 1261, quando i crociati la dichiararono cattedrale cattolica a rito romano. Fu moschea ottomana nel 1453 in seguito alla conquista del sultano Maometto II, ospitando durante i saccheggi donne, bambini e tutti coloro che non potevano difendere la città, tradotti poi in schiavitù dai vincitori. Rimase moschea fino al1931. Nel 1935 fu sconsacrata e divenne museo per volere di Mustafa Kemal Atatürk, primo presidente della repubblica di Turchia, considerato il traghettatore del Paese verso la modernità e l’apertura. Un edificio che ha attraversato peripezie inimmaginabili: incendi devastanti e ricostruzioni, terremoti, editti iconoclasti, saccheggi, profanazioni, ruberie di reliquie, occupazioni, rimozioni e occultamento murario delle decorazioni più prestigiose, recuperate fortunatamente con le sovvenzioni internazionali in tempi più recenti.
Nel 2006, dopo la visita di Papa Benedetto XVI, il governo turco destinò una piccola stanza del complesso museale a luogo di preghiera per tutte le religioni. Ed ora nuovamente moschea. Santa Sofia, non è solo navate, mosaici, portali, urne, gallerie, tappeti, una cupola particolare, muri di grandi porfidi della Tessaglia, marmi egiziani, colonne elleniche provenienti dal tempio di Artemide di Efeso, pietra nera del Bosforo e pietra gialla della Siria: è qualcosa di più, grandioso simbolo di intercultura, interreligione, pagine di storia comune, incontri di popoli, luogo di testimonianza.

Non sarà la sua nuova destinazione a depotenziare la sua immagine, guadagnata in secoli e secoli di eventi tumultuosi, costruita pezzo dopo pezzo da culture e saperi diversi, arricchita di volta in volta fino ad oggi.
D’altro canto, in greco antico, ‘Sofia’ significa sapienza, saggezza.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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