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ACCORDI
Weird Goodbyes: com’è strano dirsi addio

Weird Goodbyes: com’è strano dirsi addio

Non mollare mai. Se ci credi, ce la fai. Volere è potere. L’unico ostacolo al tuo successo sei tu.
Quante volte le avete sentite queste frasi? Quante volte i vostri familiari, i vostri amici o i vostri colleghi vi hanno dato questo consiglio?

Pensate invece alle volte in cui un familiare, un amico o un collega vi ha ascoltato profondamente e, con parole sue, vi ha suggerito di lasciar perdere o di rinunciare a qualcosa. Sono decisamente inferiori alle altre, vero?

Intendiamoci: non c’è niente di sbagliato nell’accendere il nostro entusiasmo e la nostra voglia di successo con delle frasi motivazionali. Fa parte della nostra cultura, alimenta le nostre passioni e dà degli stimoli a chi non ne ha più.

Il fatto è che la società altamente performativa in cui ci ritroviamo non si adatta a noi. Siamo noi che ci adattiamo, spesso con affanno e preoccupazione, a una narrazione un po’ tossica del successo. Dovremmo imparare a lasciar andare, a lasciar scorrere la vita dalle nostre mani, senza che lo stigma del fallimento annebbi la nostra vista.

Così, nell’epoca del quiet quitting e della maggiore consapevolezza del benessere psicologico, c’è un pezzo che ben descrive l’abbandono di qualcosa che non fa per noi, che sia un lavoro, una relazione o una schema mentale. Come nelle migliori ballate dei R.E.M., Weird Goodbyes dei National è una sequenza cinematografica di immagini e sensazioni: c’è una vecchia macchina che arranca sotto la pioggia – metafora di un pezzo della nostra vita che se ne sta andando, che non ce la fa più – mentre il segnale radio va e viene. Il protagonista accosta sul ciglio della strada, sperando che sia un problema passeggero, ma sa già che non è così.

Il crescendo emotivo è scandito da un beat incessante e dall’alternanza delle due voci: quella calda e confidenziale di Matt Berninger, l’altra più melodiosa e sofferta di Bon Iver. L’amara verità del ritornello è un colpo al cuore, specialmente sul finale, e dà un senso all’inquietudine e ai dubbi delle strofe. Perché sì, per quanto possa sembrare strano, dirsi addio è necessario e inevitabile, prima o poi.

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Paolo Moneti

Sono un pendolare incallito a cui piacciono un sacco le lingue straniere e i dialetti italiani. Tra un viaggio e l’altro passo il mio tempo a insegnare, a scrivere articoli e a parlare davanti a un microfono. Attualmente collaboro con Eleven Sports, Accordi & Spartiti, Periscopio e Web Radio Giardino.

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PAESE REALE
di Piermaria Romani

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)