Cina e USA tra Big Tech e Sociale
Analisi delle differenze
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Nell’ultimo anno stiamo assistendo ad un tentativo di ridimensionamento dello strapotere delle big tech cinesi ad opera di Xi Jinping. In realtà qualcosa di più di un semplice tentativo, esempio ne è la donazione da parte di Alibaba di 100 miliardi di yuan (15,5 miliardi di euro) ai programmi sociali ed economici del Partito Comunista.
Era successo anche a Pinduoduo, che aveva donato 1,5 miliardi di dollari, e a Tencent che da aprile ha annunciato donazioni complessive di 15 miliardi per un programma dedicato al “bene comune”.
Precedentemente sempre Alibaba di Jack Ma, a luglio di quest’anno, aveva donato altri 23 milioni di dollari all’Henan, la regione della Cina centrale colpita da un’alluvione.
Un susseguirsi di donazioni apparentemente spontanee ma che nei fatti seguono le richieste dell’apparato comunista cinese e, come notano e fanno notare gli analisti finanziari tra cui quelli di Mf – Milano Finanza, “il presidente Xi Jinping … pretende collaborazione dai Cresi del tech per la redistribuzione della ricchezza e, considerate le recenti ingerenze governative, le aziende stanno rispondendo all’appello.”
Ma per capire quello che sta succedendo bisogna fare qualche passo indietro ed arrivare fino al 1979, quando la Cina ristabilì le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti e Deng Xiaoping divenne il primo leader supremo di quel Paese a visitare gli Usa. Una lunga visita di nove giorni, iniziata il 28 Gennaio 1979, nel corso della quale vi furono tanti incontri tra Deng e il Presidente statunitense Jimmy Carter.
La storica visita ruppe il ghiaccio delle relazioni Cina-Usa, e portò alla firma di accordi di cooperazione in materia di tecnologia, cultura, istruzione e agricoltura. Lo scopo di Deng era far uscire la Cina dalle esperienze traumatiche imposte da Mao Zedong copiando il modello capitalista americano senza perdere l’impronta asiatica.
Deng divenne così il pioniere della riforma economica e l’artefice del “socialismo con caratteristiche cinesi”, teoria che segnava la transizione dall’economia pianificata a un’economia aperta al mercato, con la supervisione dello stato nelle sue prospettive macroeconomiche.
Da quel momento iniziò la grande corsa del pil cinese e Pechino si accreditò sempre di più agli occhi degli occidentali fino ad essere accettata nel Wto (World Trade Organization) nel 2001. Ma già allora il capitalismo cinese assomigliava sempre meno a quello americano e più a quello delle “tigri asiatiche”, cioè Taiwan, Corea del Sud, Singapore e Hong Kong cioè iniziativa privata con la presenza discreta (eufemismo) dello stato, che mantiene quote di partecipazione nelle grandi aziende e controlla le banche e gli interessi strategici.
Le concessioni alle leggi di mercato avevano un fine politico, funzionale agli scopi prefissati e non ideologiche, quindi le leve del potere non sono mai state cedute, solo messe da parte per il tempo ritenuto necessario. E per Xi Jinping il tempo di tirarle fuori e mostrare alla finanza cinese, ma anche al mondo, chi comanda davvero è arrivato, anche perché le big tech stavano oltrepassando il limite accettabile dalla nomenclatura.
Grazie a questo sistema la Cina ha ottenuto un successo dietro l’altro, fino a diventare la seconda potenza economica mondiale, tantissime persone sono uscite dalla povertà estrema (anche se con qualche trucco contabile) e Xi è arrivato a dire in un suo discorso a febbraio di quest’anno che in Cina “la povertà estrema è stata sconfitta”, intestandosi ovviamente il successo. Sembra che solo Di Maio sia riuscito in occidente nella stessa impresa!
Ma raggiunti i risultati, è tempo di tirare i remi in barca, in questo caso i remi sono le big tech e in primis Jack Ma a cui è richiesto il ritorno nei ranghi con il pretesto che tecnologica e protezione dei dati devono avere un ruolo nello sviluppo equo delle comunità, quindi non può essere un privato a detenerne il monopolio.
L’Occidente magari si scandalizza, abituata a un liberismo protetto per legge da schiere di avvocati, ma un po’ d’invidia in fondo c’è, visti i tanti grattacapi che le multinazionali ci danno in termini di trasparenza e ricorso ai paradisi fiscali.
Trump aveva provato a opporre qualche resistenza ma era stato subito ridimensionato. L’America non è la Cina, ci sono le elezioni, c’è la libertà, l’opinione pubblica manipolabile dai giornali manipolabili a loro volta dalle stesse big tech, e quindi capitolò e addirittura fu estromesso, come si ricorderà, da alcuni social. Il potere economico e lo stuolo di avvocati a sua difesa vince sul potere politico che lo ha creato.
Jo Biden è stato a guardare e quando è stato il momento ha seguito il coro di critiche a Trump comprendendo però che alcune delle lotte dei repubblicani avevano un senso. Motivo per cui ha lasciato in piedi tutti i dazi a carico della Cina, indugiando su quelli all’Europa, in funzione antiglobalista e di protezione del welfare interno, dei lavoratori e delle merci americane (quasi fosse un Trump qualsiasi).
Ovviamente senza troppo sbandierare le intenzioni per non turbare la sinistra mondiale (il baluardo della finanza costruito da Clinton fino a Obama) sembra proprio che anche lui sia intenzionato a ridimensionare il “libero mercato”. Ha assunto come assistente al National Security Council Jake Sullivan per ricostruire l’economia americana su basi meno liberiste e più protezioniste promuovendo lo slogan “Buy american”.
Un’altra mossa interessante è stata la nomina della giovanissima Lina Khan, una donna sempre all’attacco delle big tech alla Federal Trade Commission (Ftc, antitrust americano), proprio con lo scopo di portare più stato nelle grandi imprese. Un po’ di quel controllo statale cinese che Biden vorrebbe per gli Stati Uniti.
Di questi giorni è la nuova misura economica che immette nell’economia ulteriori 1.750 miliardi di dollari, un’iniezione di soldi per far ripartire i consumi proprio come aveva fatto la Cina immediatamente dopo la grandi crisi del 2008 e come ha fatto già dall’anno della pandemia, il che le ha permesso di superare immediatamente le difficoltà causate dalla pandemia. Il “Build back better framework” di Biden guarda alla classe media, alla scuola a partire dall’asilo, la cura dei disabili e in generale gli aiuti ai caregiver, le agevolazioni per il passaggio a energie rinnovabili e il rafforzamento dell’assistenza sanitaria. In particolare, vi figura la scuola materna gratuita per tutti i bambini di 3 e 4 anni, portando a circa 20 milioni il numero di bambini con accesso ai servizi di assistenza all’infanzia di alta qualità e a prezzi accessibili.
Non a tutti potrebbe piacere questo modo di fare, questo tentativo di imbrigliare le big tech e grandi spese per ambiente, cosa che la Cina sta facendo da tempo, e sociale. Biden sta operando in velocità perché sa che il suo orizzonte temporale è ben diverso da quello di Xi, dura solo due anni e già nelle elezioni di medio termine la sua maggioranza potrebbe cambiare, sullo sfondo di grandi lacerazioni interne tra cui quelli di movimenti come Black Lives Matter che tende a descrivere l’America agli stessi americani come un paese di razzisti incalliti che devono fare ammenda e scontare il peccato originale dell’imperialismo. Un paese diviso e in preda a isterismi continui che hanno portato persino all’abbattimento di statue per riscrivere il passato, metodi a metà tra talebani e 1984 (il libro di George Orwell). Una realtà di divisione e conflitti che per ora crea seri problemi interni ma sembra non fiaccare ancora la proiezione di potenza esterna.
Ma prima o poi l’America potrebbe crollare su stessa e sulle sue contraddizioni mentre la Cina all’interno è forte e questo le permette di perseguire i suoi scopi di politica estera senza contraccolpi. Noi non siamo pronti ad un futuro cinese e quindi dobbiamo sperare che l’Europa sappia trovare una terza via, staccarsi quanto basta dall’egemonia e dal caos americano, evitando ad esempio di impelagarci nelle future guerre nell’indo-pacifico dove già sono accorsi gli inglesi in funzione anti Cina, e tornare ad occuparci di Mediterraneo e del cortile di casa nostra. Ovviamente facendo attenzione a non cadere nelle lusinghe del mercato economico cinese, come ad un certo punto sembravano voler fare alcuni “portavoce” del passato governo Conte.
Claudio Pisapia
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