Gerhard Richter: l’arte come sopravvivenza e pudore
Gerhard Richter: l’arte come sopravvivenza e pudore
Parigi, in questo autunno 2025, si fa specchio e riflesso dell’opera di Gerhard Richter, uno dei più grandi pittori del dopoguerra. Due mostre lo celebrano: una presso la Fondation Louis Vuitton, con 275 opere che attraversano oltre sei decenni di creazione, e l’altra alla Galleria David Zwirner in rue Vieille du Temple, 108 dove si espongono dipinti, disegni e installazioni, tra cui le celebri Scheiben, le grandi lastre di vetro trasparente o colorato, che creano un gioco di riflessi, e sovraimpressioni.
Queste opere rappresentano la fase più concettuale della sua ricerca: dopo il fotorealismo e le astrazioni, Richter si è spinto verso una dimensione in cui l’opera non è più rappresentazione, ma esperienza diretta. Guardare attraverso il vetro significa confrontarsi con l’instabilità della visione, un tema centrale nella sua poetica.
Il film Opera senza autore (Werk ohne Autor, 2018), diretto da Florian Henckel von Donnersmarck è decisamente ispirato alla vita dell’artista. Il regista Henckel von Donnersmarck ha scritto la sceneggiatura basandosi su alcuni eventi realmente accaduti.
La vita e l’opera del personaggio principale, Kurt Barnert, ricalcano in parte quelle del pittore tedesco, narrate nella biografia Ein Maler aus Deutschland. Gerhard Richter. Das Drama einer Familie, del giornalista Jürgen Schreiber. Tuttavia il pittore ha preso le distanze dal film.
Diciamo quindi che il protagonista, Kurt Barnert, è liberamente ispirato a un giovane talentuoso, segnato dalla perdita della zia Marianne, vittima dell’eugenetica nazista. In ogni caso il film indaga il rapporto tra arte e verità, tra trauma e creazione, tra memoria e oblio e così facendo ripercorre proprio la vita artistica del pittore tedesco.
Richter ha sempre rifiutato le etichette. In una delle sue dichiarazioni più celebri, afferma:
«Non perseguo obiettivi, né sistemi, né tendenze; non ho programma, né stile, né direzione. Mi tengo lontano dalle definizioni. Non so cosa voglio. Sono incoerente, non impegnato, passivo; mi piace l’indefinito, l’illimitato; mi piace l’incertezza continua».
Per lui, la pittura è un atto naturale di sopravvivenza:
«La pittura è uno sforzo cieco, quasi disperato, come quello di una persona abbandonata, vulnerabile – dunque io sono cieco come la natura che agisce come può».
E ancora:
«Ho cominciato a guardare la fotografia in modo diverso, come un’immagine pura, libera da tutti i criteri convenzionali. Non aveva stile, composizione, giudizio. Per la prima volta non c’era nient’altro che l’immagine».
Queste parole aiutano a comprendere il cuore della sua ricerca: costruire per cancellare, vedere per mettere in dubbio. Ogni opera è una soglia tra ciò che è visibile e ciò che sfugge, tra la storia personale e quella collettiva, tra il gesto e la sua negazione: voltarsi per non guardare o non voltarsi per guardare.
La mostra parigina restituisce tutto questo con forza e delicatezza. È un invito a non fidarsi troppo delle immagini, perché come dice l’artista, “ogni immagine è già una perdita”.
In questo contesto, vorrei citare una poesia ispirata a un’ opera di Richter che ritrae la figlia dell’artista di spalle, in un gesto di pudore e distanza.
Il quadro, spesso scambiato per una fotografia, è un capolavoro di fotorealismo sfocato, dove l’identità e l’intimità stessa si fa enigma.
Come la pittura così la vita
Aspetto che ti volti
Betty.
Che mi rivolga finalmente
un cenno:
smetti
di fare come,
prima o poi,
la vita
continua
a volerti fare-
Nell’opera, Betty è rappresentata con incredibile precisione, come se fosse una fotografia. Tuttavia, il fatto che sia girata di spalle è centrale: lo spettatore non può vedere il suo volto, e questo gesto può essere letto come rifiuto dello sguardo: Betty non si concede alla visione, sfugge, si sottrae.
Richter qui sembra suggerirci che l’arte non debba sempre mostrare, ma può anche nascondere, evocare, lasciare spazio all’immaginazione.
Betty guarda verso il passato (il fondo grigio può essere interpretato come una tela vuota o uno spazio mnemonico), mentre noi guardiamo il presente. Il quadro diventa una meditazione sul tempo, sulla distanza tra generazioni.
Il fotorealismo qui adottato è trompe-l’œil: ci inganna, ci fa credere di vedere una foto, ma è pittura. Questo crea un cortocircuito tra verità e rappresentazione, tra memoria e realtà.
La tecnica pittorica diventa metafora della memoria: come una foto sbiadita, il ricordo è preciso ma inaccessibile, come il volto di Betty.
Il fondo monocromatico è tipico di Richter e può essere letto come un luogo della riflessione, della memoria, del pensiero. Ma il grigio è anche il colore della sospensione, del non-detto, del non-giudizio e Betty – come noi stessi, in fondo – guarda una tela che deve essere ancora dipinta o un futuro che deve essere mostrato ora o un passato da contemplare, finalmente, con distacco.
Se volessimo dare una lettura poetica, potremmo dire che Betty è un ritratto dell’invisibile: ciò che conta non è ciò che si vede, ma ciò che si immagina. Il volto nascosto è più potente del volto mostrato. Betty diventa icona del mistero, della giovinezza che si allontana, della bellezza che non si lascia catturare.
Richter, come tanti altri tedeschi, ha avuto un rapporto complesso con la memoria e la storia e così alcuni critici leggono tutta l’opera dell’artista come una riflessione sul passato familiare e nazionale, sullo sguardo che si volta altrove, forse per riflettere come nei suoi Scheiben o forse per non farsi (o farci) “vedere”; per pudore, solo e semplice pudore, come fa la sua Betty.
Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/devilsapricot-135481/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=249511″>Devils Apricot</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=249511″>Pixabay</a>
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