Presto di mattina /
L’aurora voglio svegliare
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Presto di mattina. L’aurora voglio svegliare
Il Risveglio (“El Desperar”)
Entra la luce e salgo goffamente
dai sogni fino al sogno condiviso
e le cose riprendono il dovuto
e atteso loro posto, e nel presente
converge soverchiante e vasto il vago
ieri: le secolari migrazioni
dell’uccello e dell’uomo, le legioni
che il ferro dilaniò, Roma e Cartagine.
Ritorna anche la quotidiana storia:
la mia angoscia, il mio viso, la mia sorte.
Ah se quell’altro risveglio, la morte,
mi riservasse un tempo senza memoria
del mio nome e di ciò che sono stato!
Se in quel mattino ci fosse anche oblio!
(Jorge Luis Borges, Poesie 1923-1976, Milano 1980, 177).
Scrive Domenico Porzio nell’introduzione a Tutte le opere di Borges, che i sogni hanno sempre rappresentato per il “bibliotecario argentino”, sia a livello esistenziale, nella quotidianità, sia per la sua scrittura creativa, una parte attiva, un ambiente di meditazione e forza propulsiva.
Tanto che lo commuoveva un testo di J.W. Dunne in cui si diceva che «il sogno è la piccola parte di eternità che l’uomo possiede e che spende ogni notte, giacché sognando può vivere il suo recente passato prossimo futuro:
“Tutto questo il sognatore lo vede con un unico sguardo, come Dio, dalla sua vasta eternità vede tutto il divenire cosmico”. Per i bambini e per i selvaggi i sogni sono forse parti della veglia, nel senso che li confondono con una esperienza realmente vissuta, ma è certo che “per i poeti e i mistici non è impossibile che tutta la veglia sia un sogno”» (ivi, XCIV- XCV).
Così ho pensato che ai bambini, ai selvaggi, ai poeti e ai mistici, è affidato il potere di svegliare l’aurora anche nel cuore della notte, perché per loro il sogno è una veglia e, sognare insieme designa la realtà che inizia, un precorrere, incalzando l’aurora.
Anche Borges, al venire della luce − così interpreto i versi dell’esergo − passa dai sogni al sogno condiviso nel presente; dal risveglio al morire; ma questo è inteso come l’ultimo risveglio, un nuovo mattino che si auspica abitato dall’oblio.
Per lui, infatti, l’oblio è sempre preferibile alla memoria intollerabile del passato cui spera di sottrarsi per sempre: “le secolari migrazioni dell’uccello e dell’uomo, le legioni che il ferro dilaniò, Roma e Cartagine”. Nell’oblio invece si stempera “la quotidiana storia: la mia angoscia, il mio viso, la mia sorte”, (Poesie, 177). Come la morte l’oblio cela enigmi: della morte “Voglio bere il suo cristallino Oblio,/ essere per sempre, ma non essere stato», (ivi, 195).
Un indecifrabile risveglio
Itineranza claudicante, la mia. Tra le sue poesie mi è sembrato di intuire che per Borges l’oblio sia come un nulla mistico, “Io che sono colui che adesso sta cantando/ sarò domani il misterioso, il morto,/ l’abitatore di un magico e deserto/ orbe senza prima né dopo né quando. Così afferma la mistica» (ivi, 195). Ombra in attesa di essere permeata e sopraffatta dalla luce è pure la mistica: un nulla aurorale, dunque, al modo di “lasciare un verso per l’ora triste/ che sul confine del giorno ci attende… e voglio che l’oblio/ restituisca ai giorni la tua leggera ombra (“A un poeta minore del 1899”, ivi, 181).
Per Borges “l’oblio/ è una delle forme della memoria, il suo vago/ l’altra faccia segreta della moneta” (ivi, 257): è el desperar, un inspiegabile, trasparente e finissimo risveglio. Egli, infatti, scrive ancora che “l’oblio, è il modo più povero del mistero”, un velo che tuttavia non lo occulterà per sempre lasciando trasparire alfine la cangiante sua immagine: “Dio o Forse o Nessuno, io ti chiedo la sua inesauribile immagine, non l’oblio”, (ivi, 307).
Forse è l’apparizione dell’inesauribile e di nuovo risorgente immagine della “storia dello spirito umano”, levatrice di ogni risveglio, impulso di ogni movimento, dell’orologio o dell’uccello dormiente che sogna l’aurora, precedendola oltre l’orizzonte.
Così anch’io vado cercando, non senza timore, tra i versi del poeta il nome che non ha nome, una bussola nel gravitare ai confini della sua ombra, quel “Qualcuno o Qualcosa” che senza posa “notte e giorno” va scrivendo con zelo nelle cose il loro senso nascosto e nel groviglio umano della storia il suo sogno da condividere con noi.
Una bussola (Una brùjula)
Tutte le cose sono parole della lingua
in cui Qualcuno o Qualcosa, notte e giorno,
scrive quell’infinito guazzabuglio
che è la storia del mondo. Nel suo vortice
passano Cartagine e Roma, io, tu, lui,
la mia vita che non capisco, quest’agonia
di essere enigma, caso, criptografia
e tutta la discordia di Babele.
Dietro il nome c’è quel che non si nomina;
oggi ho sentito gravitare la sua ombra
su questo ago azzurro, lucido e lieve,
che verso il confine di un mare tende il suo zelo,
con qualcosa di un orologio visto in sogno
e qualcosa di un uccello addormentato che si muove, (ivi, 167).
“Io l’aurora voglio svegliare”
Per il salmista del salmo 57 è un cuore pronto, paratum, come coscienza e decisione, quello capace di svegliare l’aurora: «Saldo è il mio cuore, o Dio, saldo è il mio cuore. Voglio cantare, voglio inneggiare: svégliati, mio cuore, svégliati arpa, cetra, voglio svegliare l’aurora».
È lo stesso cuore dell’amata nel Cantico dei cantici: «Dormivo,/ vegliandomi il cuore l’attesa/ Stropiccio di passi,/ del mio amore al battente», si esprime anche qui lo stato interiore della coscienza che abita e precorre l’attesa dell’incontro», (Ct 5, 2; trad. poetica di A. V. Reali). L’ora del risveglio antelucano è ricordata come immagine della veglia orante; nell’«ora che la sposa di Dio surge a mattinar lo sposo perché l’ami» (Paradiso X, 140-141), Così «io sveglierò l’aurora, non sarà essa a svegliarmi» (trad. di D. Kimchi).
Sveglia l’aurora chi aspetta con impazienza nella notte l’avvento del giorno; chi conosce il desiderio del cuore nell’attesa dell’altro. L’attesa è quel barlume (par-vum- lumen/piccolo lume) che anticipa nella speranza la luce aurorale. Le stesse espressioni le troviamo ripetute nel salmo 108.
San Girolamo coglie l’aspetto cristologico di questo salmo. Cristo stesso è infatti l’intero salterio, il libro di tutte le preghiere che attendono nella notte del mondo. Quel salterio della supplica e della lode cosmiche, salterio che, rinchiuso nel sepolcro, è stato capace il mattino di Pasqua di anticipare e svegliare proprio l’aurora:
«Déstati, salterio e cetra! Perché siete stati fatti, come il cuore, per cantare Dio. È nella luce che si canta Dio ed anche se noi cantiamo di notte, è in piena luce che noi benediciamo Dio… Ma io vedo un senso più profondo. È il Signore stesso che canta: Paratum cor meum, Il mio cuore è pronto! Canta per il presente e per il futuro, per la terra e per il cielo, per gli angeli, per gli uomini. Meglio: egli parla al suo corpo, questo “salterio” che è stato messo nella tomba» (Patrologia Latina, PL 26,1150).
La stessa interpretazione è presente anche in Ruperto di Deutz (PL 169,1484-1485), un monaco del XII sec., che interpreta svegliati con egerthènai uno dei verbi del Nuovo Testamento usati per indicare la risurrezione come “svegliarsi”.
“Missio migrantium”
È un versetto del monumentale salmo alfabetico sulla parola di Dio; quello che è in grado di darci al vivo l’immagine della missione dei migranti: «Precorro l’alba, precedo l’aurora e grido aiuto, spero sulla tua parola, i miei occhi prevengono le veglie, per meditare sulle tue promesse» (119 [118], 147).
Leggendo il messaggio di papa Leone Migranti, missionari di speranza, scritto per il Giubileo dei Migranti che si terrà il 4 e 5 ottobre 2025, mi viene spontaneo aggiungere a coloro cui è indirizzato lo scritto il potere di svegliare l’aurora sull’umanità e nella coscienza delle persone, proprio nel cuore della notte, come i bambini, i selvaggi, i poeti e i mistici, ché i migranti, più di ogni altro, hanno il cuore pronto per mettersi in viaggio, nel cuore il sogno condiviso e l’attesa di «un futuro di dignità e pace per tutti gli esseri umani».
Il cuore pronto a svegliare l’aurora della dignità umana rende palese il legame inscindibile tra migrazione e speranza. Tanto che «in un mondo oscurato da guerre e ingiustizie, anche lì dove tutto sembra perduto, i migranti e i rifugiati si ergono a messaggeri di speranza. Il loro coraggio e la loro tenacia è testimonianza eroica di una fede che vede oltre quello che i nostri occhi possono vedere e che dona loro la forza di sfidare la morte nelle diverse rotte migratorie contemporanee».
Il sogno di Dio
Lo troviamo nel capitolo 8 del libro di Zaccaria così lo interpretava e lo chiamava negli incontri biblici con grande convinzione don Francesco Forini. Vi si immagina come, dopo la deportazione del popolo nella città di Sion devasta e vuota, Dio si addormentasse, seduto sulle sue rovine, sognando la città come era prima: le piazze piene di bambini chiassosi presi dai giochi e del parlare degli anziani.
Poi come risvegliandosi d’improvviso tra quelle tristi e mute rovine, ricordandosi del suo amore giurato per sempre, diceva a se stesso che quel sogno non sarebbe restato tale e mutata sarebbe stata tale sorte, dall’esilio al ritorno: «se questo sembra impossibile agli occhi del resto di questo popolo in quei giorni, sarà forse impossibile anche ai miei occhi? Oracolo del Signore».
E proprio a questo testo fa riferimento anche papa Leone nel suo messaggio: «Di fronte alle teorie di devastazioni globali e scenari spaventosi, è importante che cresca nel cuore dei più il desiderio di sperare in un futuro di dignità e pace per tutti gli esseri umani. Tale futuro è parte essenziale del progetto di Dio sull’umanità e sul resto del creato. Si tratta del futuro messianico anticipato dai profeti:
“Vecchi e vecchie siederanno ancora nelle piazze di Gerusalemme, ognuno con il bastone in mano per la loro longevità. Le piazze della città formicoleranno di fanciulli e di fanciulle, che giocheranno sulle sue piazze. […] Ecco il seme della pace: la vite produrrà il suo frutto, la terra darà i suoi prodotti, i cieli daranno la rugiada” (Zc 8,4-5.12). E questo futuro è già iniziato, perché è stato inaugurato da Gesù Cristo (cfr. Mc1,15 e Lc17,21) e noi crediamo e speriamo nella sua piena realizzazione, poiché il Signore mantiene sempre le sue promesse».
Essere ‘civitas pellegrina’, nella città sedentaria e muta
«I migranti e i rifugiati ricordano alla Chiesa la sua dimensione pellegrina, perennemente protesa verso il raggiungimento della patria definitiva, sostenuta da una speranza che è virtù teologale. Ogni volta che la Chiesa cede alla tentazione di “sedentarizzazione” e smette di essere civitas peregrina – popolo di Dio pellegrinante verso la patria celeste (Cfr. Agostino, De civitate Dei, Libro XIV-XVI), essa smette di essere “nel mondo” e diventa “del mondo” (cfr. Gv 15,19)».
Occorre allora che i cristiani e le comunità si lascino evangelizzare da quella che possiamo definire una vera missio migrantium, missione realizzata dai migranti. A fronte della loro testimonianza «anche le comunità che li accolgono possono essere una testimonianza viva di speranza. Speranza intesa come promessa di un presente e di un futuro in cui sia riconosciuta la dignità di tutti come figli di Dio. In tal modo migranti e rifugiati sono riconosciuti come fratelli e sorelle, parte di una famiglia in cui possono esprimere i loro talenti e partecipare pienamente alla vita comunitaria».
Oggi sarai con me
Vi è un testo del vangelo di Luca 23, 39-43, commentato poeticamente da Jorge Luis Borges, che abbozza ancora una volta l’identità di colui che ha il potere di svegliare l’aurora. È colui o coloro, a qualunque nazione o popolo appartengano, che osano prende con sé l’altro/gli altri, vivendogli fianco a fianco, rendendo così reale il sogno condiviso con un Dio che muore accanto a noi. Di questo, mi sembra parli la convinzione di Borges secondo cui «la Storia non permetterà che si estingua la memoria di quella sera”.
LUCA, XXIII
Gentile o ebreo, o soltanto un uomo
il cui volto col tempo si è perduto;
più non riscatteremo dall’oblio
i silenziosi segni del suo nome.
Della clemenza conobbe quel che può
conoscere un bandito che la Giudea
inchioda a una croce. Il suo passato
è ormai inaccessibile. Nel compito
finale di morire crocifisso,
apprese, fra lo scherno della gente,
che chi stava morendo accanto a lui
era Dio, e gli disse ciecamente:
«Ricordati di me quando verrai
nel tuo regno», e la voce inconcepibile
che un giorno giudicherà tutti gli esseri
gli promise, dalla Croce terribile,
il Paradiso. Nient’altro dissero
fino a che giunse la fine. Ma la Storia
non permetterà che si estingua la memoria
di quella sera in cui morirono fianco a fianco.
Oh, amici, l’innocenza di quest’amico
di Gesù Cristo, quel candore che gli fece
chiedere e ottenere il Paradiso
dalle ignominie del castigo
era lo stesso che tante volte nel peccato
lo gettò e nel rischio insanguinato
(ivi, 145).
Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/
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