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La banalità del male, la renitenza del bene

La banalità del male

Hannah Arendt, ne “La banalità del male”, cita alcune dichiarazioni di Adolf Eichmann, funzionario nazista sotto processo a Gerusalemme per crimini contro l’umanità, processo di cui il libro si occupa. Affermava Eichmann:”   …ho sempre considerato gli ebrei come avversari per i quali bisogna trovare una soluzione reciprocamente accettabile…questa soluzione doveva consistere nel porre un po’ di terra sotto i loro piedi, in modo che avessero una sede loro, un territorio loro. Con gioia collaborai a una soluzione di questo tipo, perchè essa riscuoteva l’approvazione di alcune correnti ebraiche e a mio giudizio era la più opportuna”. Peccato che qualche anno dopo, invece di porre terra sotto i piedi degli ebrei, Eichmann gliene fece mettere un bel po’, di terra, sopra la testa. Tuttavia, il “primo” Eichmann nutriva una certa consonanza con le idee sioniste (questa, almeno, era la storia che si raccontava e raccontava agli altri), derivante dalla lettura de “Lo Stato Ebraico” di Herzl, libro del 1896 considerato il testo fondamentale del sionismo. Theodore Herzl partiva dall’assunto che l’antisemitismo era un germe universale: “in Russia si introducono imposte a carico dei villaggi ebrei, in Romania si uccidono le persone, mentre in Germania si usa picchiare di tanto in tanto gli ebrei; in Austria gli antisemiti seminano il terrore in tutta la vita pubblica, in Algeria dei predicatori ambulanti parlano contro gli ebrei, mentre a Parigi si preferisce la cosiddetta società migliore, escludendo gli ebrei dai circoli sociali”. Se questo era l’assunto, non aveva senso lottare per una assimilazione degli ebrei ai vari Stati in cui vivevano: la soluzione era uno Stato ebraico in cui confluissero tutti gli ebrei della diaspora, iniziata con l’arrivo dei Babilonesi in Giudea e proseguita quando l’Impero Romano occupò la Palestina. Parliamo di sei secoli prima di Cristo, anche se molti studiosi collocano la diaspora propriamente intesa all’anno 70 dopo Cristo, con la distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme. Banalizzo il concetto sionista: ci avete cacciato dalle nostre terre già duemila e settecento anni fa, per poi continuare a perseguitarci in ogni regione del pianeta. Il tempo del risarcimento storico è arrivato (alla fine della seconda guerra mondiale): la Giudea deve tornare ai giudei. L’imprinting divino della Bibbia di Geremia legittima poi, elevandolo ad un piano ultraterreno, messianico,  la sottrazione delle terre, la colonizzazione, la deportazione, il massacro indiscriminato.

Ogni carnage nella storia è sempre stato commesso in nome di Dio. O meglio, in nome di un Dio. Dio lo vuole. Mi viene in mente un passo di “Estensione del dominio della lotta”, romanzo di esordio di Michel Houellebecq: “Su un muro della stazione Sèvres-Babylone ho visto uno strano graffito: ‘Dio ha voluto ineguaglianze, non ingiustizie’ c’era scritto. Mi sono chiesto chi fosse quella persona così bene informata sulle intenzioni di Dio.” Considerato quello che, in nome di Dio, nella storia del mondo la specie umana ha commesso contro membri della specie umana, per crudeltà ed efferatezza non riscontrabile in nessun altra specie animale, sono fiero di essere agnostico. Me ne sto alla larga da tutte le religioni, da quelle sacre a quelle profane. La cosa stupefacente è che in nome di Dio si erigono chiese che sono tra le più meravigliose opere d’arte che puoi vedere, e in nome di Dio si bombardano quelle stesse chiese(leggi qui) e allora mi chiedo: che c’entra Dio? C’entrano i soldi, tutt’al più. Quelli messi a disposizione dei Giotto, dei Brunelleschi, dei Gaudì, dei Contarini, dei Buonarroti, per creare. Quelli messi a disposizione degli Hitler, dei Putin, degli Strugar, degli Al Mahdi, dei Netanyahu (nato Mileikowsky: si cambiano pure il cognome per darsi una copertura divina) per distruggere.

Quello che mi interessa focalizzare a proposito del male è proprio la sua banalità: il fatto di trovare sempre migliaia di persone che lo mettono in pratica come se fossero “rotelle” di un ingranaggio del quale accettano di fare parte come qualcosa di ineluttabile, di indiscutibile, senza alcuno scrupolo morale. (Curioso a questo proposito che l’avvocato di Eichmann utilizzasse questo argomento, cioè l’avere “eseguito ordini”, come attenuante delle responsabilità del suo assistito ma contro il volere di Eichmann stesso, che invece sostenne di “non aver accettato l’incarico con l’apatia di un bue condotto alla stalla”). La disobbedienza civile viceversa è un'”arma” potentissima ma costantemente agita da una ristretta minoranza della specie umana, molto più sensibile nella sua maggioranza alle sirene della subalternità al potere: atteggiamento sicuramente più comodo, ma in certi frangenti praticabile solo al prezzo di una disumanizzazione del bersaglio, del nemico, e quindi di se stessi.  Oppure al prezzo di una rimozione collettiva, come quella che attraversa la gente ebraica che vive nello Stato di Israele. Talmente gigantesca da far sparire l’inaccettabile, talmente pesante da renderne immisurabili i postumi, che si trascineranno per centinaia di anni, così come è immisurabile la striscia di odio millenario che l’occidente si tirerà dietro.

 

La renitenza del bene

Disobbedienza contro obbedienza. Rosa Parks che si rifiuta di cedere il suo posto sull’autobus a un bianco, regola vigente nell’Alabama degli anni cinquanta, affermando poi: “non è vero che non l’ho ceduto perchè ero stanca fisicamente, non più di quanto lo fossi di solito dopo una giornata di lavoro. L’unica cosa di cui ero stanca era di subire”. Henry David Thoreau, filosofo statunitense, che da insegnante si dimette rifiutando di applicare agli studenti le punizioni corporali previste, e che per sei anni non paga le tasse che finanziavano la guerra schiavista contro il Messico. Gandhi e la Marcia del Sale in cui dimostra agli indiani che potevano raccogliere il sale gratuitamente dal mare, eludendo il divieto coloniale britannico. Muhammad Alì (o Cassius Clay) che rifiuta la leva forzosa per il Vietnam affermando “in Vietnam nessuno mi ha mai chiamato nigger“, scelta che gli fa rischiare il carcere e gli costa una multa e tre anni di carriera sportiva(leggi qui un approfondimento sulla vicenda).

L’esempio di Muhammad Alì mi consente di collegarmi alla ribellione morale che si manifesta attraverso la renitenza alla leva di giovani israeliani.  Sofia Orr, giovanissima israeliana (ha vent’anni), è stata in carcere 85 giorni (leggi qui) per il suo rifiuto ad arruolarsi, motivato con l’impossibilità di contribuire alla strage di palestinesi.  Il fenomeno della renitenza in Israele non è massivo: è ancora più rischioso “disertare” dopo il 7 ottobre 2023. Se pensiamo poi che molte renitenze provengono da giovani ultraortodossi che obiettano alla leva obbligatoria perché fino all’attentato di Hamas la legge li esentava, in quanto dovevano studiare senza distrazione i testi sacri (hai capito bene: i colonizzatori vogliono spianare i palestinesi in nome di Dio, ma il lavoro sporco lo devono fare gli altri perché loro devono studiare), si capisce che il fenomeno preoccupa il governo per ragioni politiche più che numeriche: infatti gli ultraortodossi fanno parte della maggioranza che lo sostiene. Ciò detto, il fenomeno della renitenza è preventivo, ma si salda sicuramente con le testimonianze – queste sì crescenti – di ex soldati e soldatesse che, successivamente al periodo di milizia nell’esercito IDF, rompono il silenzio. Nadav Wael (nella foto) faceva il cecchino, oggi dice: “Nel 2006, dopo tutte le esercitazioni, una notte facciamo irruzione, butto giù la prima porta, entriamo nelle camere, ce n’è uno nel letto, lo prendo, lo sollevo per portarlo nella stanza dove raduniamo tutti, ma: è leggero. Solo allora ho visto che era un bambino, di 10-11 anni, ha aperto gli occhi ed era così spaventato. L’ho portato dal resto della famiglia e ho continuato. Ma quando sono tornato indietro dall’operazione mi sono chiesto: “Cos’ho appena fatto?”. Non ci fu combattimento, nel 99% dei casi non c’è, è solo per far sentire le persone oppresse, è il modo in cui le controlli, con l’intimidazione. Quando ci fu la pubblicazione del report, 12 anni dopo aver lasciato l’esercito, ho davvero capito che cosa avevo fatto”.  Ma ancora più terribili sono le testimonianze anonime pubblicate su Haaretz: “Ho sparato a un arabo quattro volte nella schiena. Mi è bastato dire che era legittima difesa, e l’ho fatta franca. Quattro proiettili nella schiena, da dieci metri di distanza… omicidio a sangue freddo. Facevamo cose così ogni giorno.” “È come una droga… ti senti invincibile, come se fossi tu la legge, come se fossi tu a dettare le regole. Appena lasci Israele ed entri nella Striscia di Gaza, ti sembra di essere Dio.” “Un arabo camminava per strada, avrà avuto 25 anni. Non ha lanciato pietre, non ha fatto nulla. Bang, un colpo allo stomaco. Gli ho sparato allo stomaco, l’ho visto morire sul marciapiede. E noi ce ne siamo andati via, indifferenti.” 

La renitenza è una opzione, non a rischio zero, per tutti i giovani che vivono in nazioni che sono parte di un conflitto. Ma soffrire di disturbo post traumatico da stress o di incubi o di depressione maggiore per il resto della vita, per aver eseguito ordini manifestamente criminosi, per aver oltrepassato senza ritorno la porta del senso di umanità, è un rischio anche maggiore. Il portavoce dell’agenzia delle guardie di frontiera ucraine Andrii Demchenko ha da poco dichiarato che sono almeno 49mila gli uomini in età di leva cui è stato impedito di fuggire dal paese negli ultimi tre anni. La renitenza in Russia è se possibile ancora più rischiosa. In questo articolo puoi leggere le testimonianze di chi scappa dalla coscrizione o dalla guerra attraverso le reti di sostegno segrete.

La renitenza o la diserzione durante una guerra è la condotta corrispondente alla disobbedienza in tempo di pace. Ed è più pericolosa. Nonostante questo, anche la disobbedienza civile ed in generale forme di resistenza passiva all’autorità costituita non sono praticate, se non da qualche persona nella quale il senso dell’umanità prevale sulla subordinazione cieca all’autorità, sul nazionalismo, sul patriottismo, sugli ismi con i quali i potenti riempiono la testa dei popoli per mandarli ad ammazzare o a farsi ammazzare per conto loro. Per quanto mi riguarda, giovani come Sofia Orr rappresentano la flebile fiammella della speranza che la specie umana, magari tra alcune generazioni, possa redimere se stessa.

 

“Ho sempre sentito più l’impegno verso le persone che verso gli stati”.

Sofia Orr

 

 

Foto di copertina: Sofia Orr arriva al centro di reclutamento IDF per rifiutare l’arruolamento, tratta da www.dinamopress.it

 

 

 

 

 

 

 

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, anche se lo stipendio fisso lo ha portato in banca, dove ha cercato almeno di non fare del male alle persone. Fa il sindacalista per colpa di Giorgio Ghezzi, Luciano Lama, Bruno Trentin ed Enrico Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

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