Cittadinanza e lavoro:
oltre la faglia sociale
Tempo di lettura: 4 minuti
Cittadinanza e lavoro: oltre la faglia sociale
L’Italia è quel paese nel quale metà circa dei cittadini non paga tutte le tasse che dovrebbe; un terzo dei cittadini non riesce a comprendere e valutare il significato di un testo standard, scritto nella propria lingua madre; un quinto tra politici e colletti bianchi ha la fedina penale sporca. Partiamo quindi dall’assunto che sono molti gli italiani che non potrebbero accedere alla cittadinanza italiana secondo la legge italiana. Diminuire il periodo di residenza in Italia potrebbe consentire a chi invece ha i requisiti di cui sopra (quelli che molti italiani non hanno) di accelerare la cosiddetta sostituzione etnica – ridicola espressione che vorrebbe incutere la paura dell’uomo nero – in un paese, l’Italia, che è il più vecchio d’Europa. Semplicemente, l’Italia ci metterà più tempo di altri a meticciarsi, come è inevitabile e come è già accaduto in altri paesi ex colonialisti: basta guardare quanti colored o ottomani ci sono nelle compagini sportive nazionali di Francia, Germania, Regno Unito(che infatti spesso ci danno la paga). Cittadini il cui lavoro regolare pagherà nel frattempo la pensione degli indigeni francesi, inglesi, tedeschi. Noi italiani no: noi dobbiamo restare di razza pura (e in prospettiva senza i soldi per pagarci la pensione), anche se siamo talmente lunghi da andare dal fenotipo tirolese al paramagrebino, passando per il turco (Vannacci). Visto che si parla di abbreviare i tempi di residenza certificata, tra l’altro, chi evoca lo spettro “clandestini” per osteggiare questa modifica parla di una cosa che non c’entra niente.
L’Italia è quel paese nel quale chi lavora per una ditta che lo manda su un ponteggio senza dispositivi di sicurezza, perché il padrone che le appalta il lavoro vuole risparmiare, se muore sul lavoro è una disgrazia, una fatalità, una tragedia: di cui nessuno risponderà, per cui nessuno risarcirà la famiglia.
L’Italia è quel paese in cui il datore di lavoro conosce in anticipo cosa gli costa disfarsi di una dipendente che fa troppi figli. Un indennizzo, termine che chiarisce perfettamente cosa sia il lavoro per gli inventori del Jobs Act: una pura merce di scambio, sostituibile a piacimento del datore. Grazie al cielo in Italia sopravvive una classe di magistrati con una formazione che risale alla tradizione giuslavorista degli anni settanta, vent’ anni prima che nel cosiddetto centrosinistra imperversasse la moda della flessibilità, ovvero il libero mercato applicato alla vita sociale. Per loro esiste ancora il risarcimento, cioè il giusto prezzo da pagare per aver commesso un abuso. Quando questa generazione di giudici sparirà, così come gli ultimi testimoni della Resistenza, i diritti sul lavoro rischiano la stessa fine: quella di essere battezzati come un trito retaggio del passato, come direbbe la Picierno.
Questi liquidatori a saldo delle tutele delle persone che lavorano (i treu, i sacconi, gli ichino, e loro derivati e garanti politici) sono tra i responsabili della desertificazione dei diritti nel lavoro, della trasformazione del medesimo in pura merce – con conseguente mercificazione delle persone che lo prestano – e hanno contribuito all’abbandono di ogni forma di impegno, a partire da quello basico del voto, da parte di troppi disillusi, cornuti, mazziati. La loro filosofia è stata particolarmente nefasta proprio perché ha prodotto lacerazioni e fratture dentro il bacino sociale che in fondo aveva scelto, direttamente o indirettamente, proprio loro quali rappresentanti “scientifici” o politici. Non ne discuto la buona fede, le intenzioni; e ribadisco l’idiozia criminale delle sedicenti Brigate Rosse che, come sempre nella storia di questo paese, ammazzando da vigliacchi hanno fatto il gioco dei padroni, nostrani e stranieri, rendendo per lungo tempo tabù il poter criticare le idee di precarizzazione del lavoro, pena essere considerati dei loro fiancheggiatori. Ma la faglia che questi teorici, spesso prestati alla politica, hanno prodotto ha terremotato il tessuto sociale fino a ridurlo in macerie. Purtroppo chi vuole strumentalizzare ha gioco facile nel dire che il referendum sul lavoro è stato appoggiato dallo stesso partito che detiene la paternità delle pessime norme che si volevano abrogare. E che è tuttora spaccato tra chi vuole voltare pagina e chi la riscriverebbe pari pari. Ma è spaccato al vertice, a Roma. Per fortuna Elly Schlein, a volte accusata di avere una spiccata sensibilità civile ma non sociale, sembra sapere da che parte sta la base. Del resto, alle primarie lei è stata votata da un sacco di gente che non votava più il PD.
Sono almeno trent’anni che la filosofia politica dominante e trasversale precarizza il lavoro attraverso la produzione legislativa, usando il pretesto di aggredire così il tema dell’occupazione. Tuttavia, l’occupazione non è aumentata per effetto di queste norme, se si adotta una serie storica adeguata, che parta dalla fine degli anni novanta, e non solo dal dopo Covid (troppo facile); anche perché alla cosiddetta flessibilità non è stata affiancata una politica di sostegno all’innovazione nelle imprese. Il tema aggredito è stato un altro: rendere le persone insicure e precarie fin dall’inizio e in modo duraturo, quindi ricattabili. Le persone ricattabili e insicure non lottano, non agiscono i loro diritti, e accettano la compressione del salario (altra conseguenza esiziale: adesso si riscopre quanto era importante la scala mobile). Avere portato a votare su questo tredici milioni di persone, dopo tutto il “fuoco amico” di questi trent’anni, (e dopo la conclusione della parabola organica al governo dell’ attuale Cisl, che mi auguro faccia riflettere molti suoi iscritti) è un fatto che non merita di essere commentato usando le categorie della sconfitta, della vittoria o del fallimento. Se l’ ambiziosa e sfiancante iniziativa referendaria sarà il primo tentativo di saldare ciò che per decenni è stato ridotto in cocci, la considero un raccordo verso l’imbocco di quella “via maestra” che, con disperata e a volte disincantata passione, continua ad imboccare in direzione ostinata e contraria le autostrade percorse dai caterpillar del liberismo.
Photo cover: dettaglio della faglia del Monte Vettore, tratta dal sito igag.cnr.it
Non si poteva dire meglio di così… come sempre nei commenti di Cavallini.
Apprezzo molto la lucidità che fa scrivere i nomi, di chi, tuttora esaltato dal pensiero dominante, è stato responsabile cieco, penso, perché credo non si rendessero conto, di tutto questo disastro così bene illustrato in tutte le sue implicazioni.