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La terza alba
Un racconto di Carlo Tassi

Un luogo bellissimo, una terra incantata. Ogni cosa intorno si rivela in tutto il suo insolito fascino: crepuscolare, plumbeo, tenebroso… come piace a me.
Farsi attrarre dagli anfratti più bui e misteriosi per il gusto temerario dell’ignoto, e quel piacevole, titillante brivido al richiamo di un pericolo nascosto, imminente, circostante.
Tutto questo è l’Isola di Drüme. Brulla, desolata, remota. Nessuno ci vive… a parte me.
Nessuno vorrebbe mai abitarci. La paura ne è la ragione. Ed è certamente giustificata direi!

Quando ho deciso di trasferirmi quaggiù, tentarono di dissuadermi in ogni maniera.
“Tu sei pazzo! Come puoi fare sul serio?” mi dicevano.
Molti m’avevano accennato di storie tragiche e poco chiare, successe tanto tempo fa proprio su questo roccioso costone affiorante tra le morbide dune liquide dell’oceano, quando ancora gli uomini l’abitavano. Tutti conoscevano la reputazione infausta dell’isola e alcuni ne avevano fatto le spese. E fu proprio quando ho avuto la prova della fondatezza di queste dicerie che ho scelto di venire in questo posto.
Il giorno della mia partenza, l’ultima voce umana che sentii alle mie spalle mi gridò: “Pazzo, torna indietro finché puoi!”

Un villaggio, un tempo florido e popolato da famiglie di pescatori coraggiosi, dominava il centro dell’isola che spuntava in mezzo a un mare tempestoso per gran parte dell’anno. Ma ai pescatori questo non importava, perché erano acque ricche e pescose e ogni giorno regalavano un grasso bottino di pesci, molluschi e crostacei. All’alba i pescatori partivano con le loro barche per ritornare a tarda sera, stanchi ma soddisfatti. Ogni giorno sfidavano le grandi onde, le secche improvvise e le forti correnti per rincorrere i branchi argentei dei pesci che proprio in quelle acque facevano tappa nelle loro incessanti migrazioni. Tutti i giorni, per tanti anni.
Poi un mattino comparve una nebbia fitta, un muro grigio e profondo. Così l’intera isola si trovò come immersa in un limbo spettrale, una bambagia umida e impalpabile che rendeva invisibile tutto quanto, vicino o lontano che fosse.
E il mare stesso s’intuiva soltanto dal rumore della risacca.

Ma anche quel mattino i pescatori non si arresero alla perfidia del tempo. Con coraggio e fiducia andarono alle loro barche e salparono, attraversarono il muro di bruma e subito scomparvero alla vista di chi restò a terra.
Quel giorno il villaggio rimase immobile nell’attesa. Per ore la gente non fece nulla se non aspettare il ritorno dei figli, dei mariti, dei padri. Alla sera la febbre dell’inquietudine salì inesorabile quando iniziò a far tardi e nessuna barca era ancora giunta al porto.
Per tutta la notte le donne del villaggio stettero a vegliare il buio, con lo sguardo a quel mare invisibile e la disperata speranza a scalciare nel petto.
L’alba seguente, la nebbia era entrata nell’anima stessa del villaggio, nelle case, nelle stanze, ovunque. Un silenzio tombale era sceso sull’isola, nemmeno gli uccelli marini si udivano, solo il lento, ipnotico sciabordio della risacca restava l’unico ovattato sottofondo.
Tutta la vita superstite era sospesa, tra angoscia e rassegnazione.
Arrivò la seconda notte d’assenza e d’attesa. Alcune donne vagavano con occhi smarriti tra le vie del villaggio a cercare ragione di tanto strazio. Altre, più anziane, restavano in casa a pregare il dio della misericordia. Le spose più giovani inveivano contro quel mare che le circondava e che le condannava all’infelicità e alla solitudine.
La terza alba, nel villaggio bagnato di nebbia e lacrime, s’udì il suono di un corno. I cuori sussultarono, le donne corsero al porto e videro le barche spuntare dal muro fosco. Una dopo l’altra approdarono tutte, e tutti i pescatori a bordo, esausti e assetati, giunsero a terra sani e salvi.
Poco dopo la nebbia si diradò e, da est, un sole potente cominciò ad asciugare le pietre delle case, a scaldare le anime che le abitavano. Tutto tornò a illuminarsi e a colorarsi di nuovo: prima il cielo e il mare, poi gli sguardi e i sorrisi della gente…

Questo accadde tanto tempo fa.
Ora l’isola è diventata uno scoglio deserto, frustato dalle burrasche d’inverno, avvolto dalle nebbie d’estate, evitato dagli uomini tutto l’anno.
Io ne ho fatto casa mia. Da qui posso contemplare la sublime crudeltà dei suoi elementi. Posso espiare i miei peccati godendo della più perfetta solitudine. In attesa, casomai, di qualcosa che arrivi dal mare, di un riscatto, dell’anima che ho perso…
In attesa della mia terza alba.

Spectral Mornings (Steve Hackett, 1979)

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Carlo Tassi

Ferrarese classe 1964, disegna e scrive per dare un senso alla sua vita. Adora i fumetti, la musica prog e gli animali non necessariamente in quest’ordine. S’iscrive ad Architettura però non si laurea, si laurea invece in Lettere e diventa umanista suo malgrado. Non ama la politica perché detesta le bugie. Autore e vignettista freelance su Ferraraitalia, oggi collabora e si diverte come redattore nel quotidiano online Periscopio. Ha scritto il suo primo libro tardi, ma ha intenzione di scriverne altri. https://www.carlotassiautore.altervista.org/

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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