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2.segue – Dopo due giorni e due notti insonni, domenica mattina ho preso la decisione: io di questa edilizia popolare voglio vedere i risultati. Parto, ma la mia missione viene – per ora – deviata dalla curiosità. L’espressione “cattedrali nel deserto” è stata più volte ripetuta dal sindaco Tagliani, e il mio occhio ne avvista immediatamente una. Non posso fare a meno di fermarmi. Sono le 10 del mattino e mi trovo dinanzi al Darsena City. Parcheggio la macchina nel posteggio sotterraneo, non c’ero mai stato. Mi fa uno strano effetto, disorientante, le auto sono poche, non dev’esserci molta gente ai piani superiori. Scendo, scatto qualche foto, c’è una perdita d’acqua dalle tubature del soffitto che crea un effetto cascata quasi affascinante. Cerco gli ascensori. Una volta trovati salgo su, piano 0. Mi ritrovo nel mezzo tra due maxi negozi: alla mia sinistra un emporio di scarpe, deve aver aperto da poco, non lo avevo notato prima; alla mia destra l’ipermercato. Faccio un giro all’interno. Voglio sentire e vedere le persone che frequentano questo luogo. La gente che incontro è eterogenea, di varie nazionalità. Noto una certa frequentazione di africani, riconosco alcuni volti dei parcheggiatori abusivi conosciuti nelle serate tra l’ex-Mof e il ‘montagnone’. Compro un giornale. Alla cassa un’addetta cerca di contrattare dei cambi da 5 euro con un uomo, il quale capisco essere un elemosinante. L’uomo acconsente dicendo però che i soldi ce li ha “sopra”. Mentre si allontana la cassiera sorridendo afferma che “questi sono meglio delle banche per i cambi”.

Compio una passeggiata all’esterno del complesso. Il passaggio è ampio, mi guardo intorno: i due negozi principali hanno molta clientela, sembrano davvero funzionare. Rientro nell’edificio principale. Mi assale un senso di angoscia: mi guardo intorno, tutto chiuso. Saracinesche abbassate, in alcune si scorgono lavori in corso all’interno. Salgo su. Il nastro trasportatore mi fa giungere al piano superiore, quello del cinema per intenderci: un multisala molto famoso, una decina le sale. Ci lavorava un mio amico qui. Anche questo sembra funzionare bene. Ma mi volto di spalle e di nuovo ecco la sensazione di vuoto, stessa scena: una distesa di vetrine oscurate da teli, serrande abbassate, lavori in corso d’opera, dei quali alcuni sembrano abbandonati da tempo. Scatto altre foto, e ridiscendo. Andando verso l’altro ingresso, quello che dà sulla darsena, c’è un bar: prendo un caffè. C’è parecchia gente lì, ma non quanta me ne aspettassi essendo domenica. Mi chiedo: dove sono gli studenti? Dove sono i residenti della zona? Esco dal bar, di fronte a me il corridoio che mi porta ai due ‘maxi’, ma alla mia destra un altro corridoio che va verso il nulla. Non riesco a trattenermi oltre.
Esco fuori. Piove a dirotto ma la cosa non mi tange perché c’è una cosa che mi attira: una torre cilindrica, altissima, che svetta ad osservare tutto il complesso. Mi avvicino. Vuota. Un’immensa torre di Babele (nella forma me la ricorda) totalmente vuota. Delle transenne mi impediscono di accedervi. Credo di aver visto abbastanza. Torno alla macchina. La mia voglia sarebbe quella di poter tornare indietro, riavvolgere il nastro del tempo e chiedere conto delle “cattedrali nel deserto”. Sì, perché il sindaco ha ragione: questo edificio non è una cattedrale nel deserto, ma c’è un immenso deserto nella cattedrale… Prendo la macchina e vado via. Mi chiedo quale sia l’utilità di questo tipo di edilizia e quale il vero scopo, quali gli appetiti che soddisfa… Quale sia l’obiettivo della costruzione di questi immensi ‘non-luoghi’, sui quali Marc Augé potrebbe scrivere interi trattati. Quale sia la funzione sociale: l’aggregazione? il lavoro? passeggiare? fare la spesa?

Mi lascio alle spalle questo ‘mausoleo del nulla’, questo immenso, imponente, simbolo di un mancato successo, che racchiude in sé un senso di smarrimento, di malinconia, di sofferenza, che ho visto in quelle troppe finestre chiuse, che testimoniano come gran parte degli appartamenti, lì, sono vuoti. Gli studenti non abiteranno mai qui, mi sono detto. E mi chiedo il senso di questo nuovo studentato fantasma, cinto dalla nebbia nei giorni di bruma, lungo il corso del fiume.
La macchina prosegue sul viale e davanti mi si manifesta un altro ‘spettacolo’, il primo che ho visto quando scesi quattro anni fa dal treno: i grattacieli, ormai famigerato simbolo del quartiere Gad. Alloggi di lusso un tempo, oggi equiparabili invece alla più sciagurata edilizia popolare. Ma lì, almeno, pullulano le finestre aperte: la maggior parte degli appartamenti, però, sono occupati abusivamente. Vorrei proseguire, ma credo per oggi di aver visto abbastanza…

2.continua

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Jonatas Di Sabato

Giornalista, Anarchico, Essere Umano

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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