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“Barbie”, fra stereotipi e marketing

Oggi è al secondo posto per incassi e numero di spettatori preceduto solo dal film di Paola Cortellesi “C’è ancora domani”. Avevo deciso di non contribuire troppo a quegli incassi faraonici: eccomi allora approdare su Sky quando il costo del noleggio è sceso a 0,99 €; non avrei speso, permettetemi, un euro di più per vederlo. Avevo deciso così e la visione ha confermato il mio pensiero. Tuttavia, restava la curiosità, per il tanto parlarne, fin dall’uscita che ha riempito le sale (evento incredibile, d’estate), per cui vederlo era quasi inevitabile. Tanto rumore per nulla, o quasi.

Quello che è certo è che è il film “Barbie”, scritto e diretto da Greta Gerwig, è una grande pubblicità per la Mattel e la bambola del secolo (nata il 9 marzo 1959). Quella che tutte prima o poi abbiamo avuto. Sempre che di tutta questa pubblicità ne avesse bisogno. O forse sì, ignorando quanto mercato abbia, di questi tempi, questo giocattolo che, oggi, credo (o almeno spero) pochi acquisterebbero.

All’epoca molte bambine non l’amavano troppo, forse perché era bella e lontana da loro, imperfette e non sempre longilinee, con capelli lisci, biondi e lucidi, rispetto ai ricci, indomabili, crespi e neri di tante di loro. E poi, con la sua vita sottile, aveva tanti vestiti, a differenza di molte, e pure la casa con la piscina. Fino a che molte di noi sono arrivate a lasciarla andare, a non decapitarla più o a non tagliarle i capelli, a ignorarla e a vedersi e piacersi come eravamo, non così male in fondo. Senza di lei. Non era un bel modello.

Ma torniamo al film “Barbie”. L’attrice Margot Robbie, che è anche produttrice del film, ha sempre voluto realizzarlo, tanto che, nel 2018, ha incontrato il nuovo amministratore delegato di Mattel, Ynon Kreiz, per spiegargli perché la sua casa di produzione, fondata con il marito Tom Ackerley, fosse quella giusta per realizzare una pellicola sulla bambola più famosa del mondo. E lo ha convinto.

La Robbie ha lavorato con registi come Quentin Tarantino in “C’era una volta Hollywood”, Damian Chazelle in “Babylon” e, più recentemente, Wes Anderson in “Asteroid City”, grandi nomi con i quali ha sempre desiderato lavorare: sa quindi quello che vuole, sempre. Non da meno il curriculum della Gerwig che ha diretto “Lady Bird” e “Piccole donne”. Nonostante il pedigree dell’attrice e della regista, il film insiste un po’ troppo sui consueti stereotipi sulle donne, sicuramente da combattere, ma è un po’ sempre la stessa musica. Molta, troppa, retorica (quella del “se vuoi, puoi”), poca coerenza, molte le linee narrative che si perdono nei cliché. Qualcuno l’ha pure definita “una perfetta operazione di marketing feminism-friendly”.

Dicevamo, molto rumore per nulla o quasi. Quasi, perché qualcosa, alla fine, si salva. Originali solo l’ambientazione artificiale, Barbieland, e i suoi colori. In particolare, il colore, creato appositamente per il film dal direttore della fotografia Rodrigo Prieto, il “Techni-Barbie”, una tonalità che si trova solo a Barbieland.

Interessante anche la dicotomia mondo ideale (o meglio, del tutto immaginario e quindi inesistente) gestito dalle donne, e il mondo reale, dove a farla da padrone sono invece gli uomini, con lo storico inossidabile patriarcato a dominare.

Divertente anche l’idea che, con una macchina colorata, si possa passare dal mondo ideale a quello reale, peggiore di quello in cui vive Barbie, che, ad un certo punto, si rende conto che i suoi piedi, appiattiti, non possono più reggere i tacchi alti, che si può cadere, che il mondo poi non è così fantastico, che si può invecchiare e morire. Insomma, che il mondo reale è tutta un’altra cosa, con le sue pause e incertezze.

Resta il fatto che a Barbieland, se ogni Barbie può essere amministratore delegato, pilota, scienziata o astronauta, non si sceglie i vestiti, che vanno di pari passo con la sua professione. Rimane un mondo finto, dove a scegliere sono sempre gli altri e non lei. Barbie è bella perché così la vogliono, la disegnano e la vestono, imbevuta di rosa. Non sceglie. Mai. Nonostante il lieto fine.

Barbie, di Greta Gerwig, con Margot Robbie, Ryan Gosling, America Ferrera, Kate McKinnon, Michael Cera, USA, 2023, 114 minuti

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

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Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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