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“Ferrara alè, non tifo per gli squadroni ma tifo te, la Spal è una malattia ma anche un amor, la maglia che porti addosso è un ossession, se ancora un altro secolo tu vivrai, lo sai che da sola mai camminerai”

Nemmeno le sei e mezza di mattina ma già, fuori dallo stadio, si intonano i cori della curva Ovest. I tifosi spallini, fin dalle prime luci dell’alba, nei giorni scorsi si sono affollati fuori dal botteghino dello stadio alla caccia del biglietto che, per un vero tifoso, vale oro: quello per il match di oggi contro il Pro Vercelli. Perché, pur non volendolo dire per scaramanzia, si sa che se la Spal vincesse, grazie al pareggio di venerdì del Perugia, la squadra di calcio ferrarese tornerebbe matematicamente in serie A dopo 49 anni di assenza.

Festivo il clima che si respirava fuori dallo stadio e in tanti, lavoratori, vecchietti insonni o studenti diretti a scuola, si sono fermati incuriositi davanti ad una simile bolgia. Gli addetti alla sicurezza dello stadio hanno transennato la zona intorno al botteghino: qualche automobilista sbraitava per il disagio del traffico rallentato e, due curiosi in bicicletta incantati dallo spettacolo di tanto calore biancoazzurro, hanno rischiato di finire sotto una macchina ripartita sgommando. Può sembrare strano tanto entusiasmo in questa sonnecchiosa città, ma la storia di riscatto della Spal fa sognare i tanti tifosi che vedono in essa la materializzazione della secolare lezione che la speranza deve essere l’ultima a morire.

Una storia nata, ad inizio secolo, in un oratorio dalla volontà di un prete salesiano, quel don Pietro Acerbis che fondò un circolo ricreativo Ars et Labor, e i cui colori sociali, il bianco e l’azzurro, furono scelti ispirandosi allo stemma della congregazione salesiana. E poi la volontà di affermarsi tra le grandi, la finale di Coppa Italia nella stagione 1961-1962, la stella d’oro al merito sportivo nel 1974, quindi i patimenti degli anni Ottanta, l’illusione e il declino dei Novanta, il doppio fallimento fra il 2005 e il 2012 con il precipizio in serie D e poi la riscossa col ritorno in Lega Pro, la scorsa stagione trionfale culminata con la promozione in serie B e questa straordinaria inattesa cavalcata verso la A. Parlo con una responsabile alla sicurezza e mi dice che la situazione è sotto controllo: “Domenica ci sarà fiume di gente”. Ed è lì, il fiume umano, che la passione in queste ore alimenta.

Ripenso alla vigilia di questa festa annunciata. Le sciarpe biancoazzurre fatte roteare in aria, molti le portano al collo per proteggersi dall’aria della mattina presto. Mi fermo vicino a due anziani signori che sorridono sornioni pur rimanendo a guardare defilati. Forse pensano alla Spal degli anni ’60 in cui militarono, tra i tanti, Fabio Capello ed Edy Reja. O forse non pensano a niente di tutto ciò e sono solo scesi in strada, come ogni giorno, per ispezionare la città a caccia di nuovi cantieri stradali. Continuo anche io per la mia strada. Mi sono svegliata con i cori spallini, ho fatto colazione al suono di ‘Ferrara Alè’, cammino tra i tifosi in fila davanti allo stadio. E’ il clima di festa che, da due stagioni a questa parte, si respira nel quartiere dello stadio, con le urla della domenica e il flusso dei tifosi, demotivati o festanti a seconda del risultato, nel post partita. Delle transenne a delimitare la zona circostante il Paolo Mazza e gli automobilisti inviperiti per i disagi. Dei tanti bambini che con i genitori vanno a vedere la partita, delle bandiere biancoazzure appese fuori dalle case, in Paolo V come in corso Vittorio Veneto.

Oggi, volente o nolente, io ci sarò: basta che apra la finestra della mia cucina e partecipi al coro di centinaia di tifosi spallini. E che festa sia. Anch’io, ferrarese adottiva, mi sento partecipe. Per questo ho rispolverato un’immagine che spero beneaugurante: sono di Cagliari e conosco bene il limbo della B e la festa travolgente della risalita in A…

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Simona Gautieri


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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