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Maggio è il mese delle allergie. Personalmente ho un attacco di orticaria ogni volta che sento pronunciare la parola digitalizzazione. In Italia, paese nel quale l’apparenza prevale sulla sostanza, nel quale la programmazione ha l’orizzonte temporale di una tornata elettorale, abbiamo l’abitudine di rappresentare noi stessi come dei gran fighi semplicemente pronunciando come pappagalli una parola di moda. Che è tipo girare in Porsche in riserva e dal benzinaio fare sette euro di Gpl, come Checco Zalone in una scena iconica delle sue.

Allo stesso modo, giornalisti, ministri e sottosegretari si riempiono la bocca con questo vocabolo che sembra racchiudere tutto un mondo fantastico, digitalizzazione, un mondo di cui non sanno nulla. Invece, uno che lo sa è un medico in pensione spagnolo di nome Carlos San Juan, 78 anni, da Valencia. Ha lanciato su Change.org una petizione che veleggia verso il milione di firme – il che testimonia anche del suo fiuto per la comunicazione – contro la disumanizzazione delle banche, che colpisce soprattutto i clienti anziani e in genere fragili. Lui dice “soy mayor, no idiota”, ed ha ragione da vendere.

A chi non è capitato di dover rispondere ad una serie di domande astruse o incomprensibili, di non riuscire ad accedere ad un servizio perchè cade la linea (internet o telefono) e poi però avere la soddisfazione, dopo un gioco dell’oca interminabile, di firmare su un magnifico schermo digitale anziché su un pezzo di carta? Peraltro non hai nemmeno risparmiato la carta, perchè poi il contratto si deve stampare lo stesso. Le parole di Carlos San Juan che cito di seguito mostrano come cambia il panorama man mano che agli addetti fisici si sostituiscono le app o gli assistenti digitali, ma dietro non c’è nessuna pianificazione del passaggio ad un futuro digitale: “Ogni giorno è sempre più complicato ritirare o depositare soldi. O bisogna prendere appuntamento o fare tutto attraverso un’applicazione e le firme da fare sono sempre di piu”.

Appare evidente una prima contraddizione: la tecnologia complica le cose invece di facilitarle. E’ un fenomeno che smentisce quella che dovrebbe essere una funzione essenziale dell’ innovazione tecnologica nei servizi, ovvero semplificare la vita delle persone. A questo si aggiungono, specialmente nei paesi più arretrati dal punto di vista delle infrastrutture tecnologiche, due problemi.

Il primo è l’abbandono fisico dei territori più fragili. Proprio laddove ci sarebbe più bisogno di presenza, le grandi banche chiudono gli sportelli, in base all’assunto che si tratta di territori poco attrattivi (traduzione: dove i margini di profitto sono inferiori, con buona pace del ruolo sociale del risparmio e del credito). Sono “poco attrattivi” quei territori in cui l’economia è più fragile e dove l’età media dei clienti è più elevata.

Il secondo problema è l’arretratezza tecnologica del paese. Secondo una relazione commissionata dall’ONU, che ha esaminato i seguenti indici: la percentuale di brevetti concessi agli abitanti, le entrate sotto forma di royalties e diritti di licenza, il numero di host Internet, la percentuale di esportazioni di alta e media tecnologia, il numero di apparecchi telefonici, il consumo di elettricità, il numero medio di anni di istruzione, nonché il tasso lordo di scolarizzazione scientifica di terzo livello; i primi posti sono occupati da Finlandia (prima), Stati Uniti, Svezia, Giappone, Corea del Sud, Paesi Bassi e Regno Unito. Gli altri paesi dell’Unione europea che figurano nella sezione più alta della classifica sono Germania, Irlanda, Belgio, Austria e Francia. Il paese risultato al primo posto in base al criterio degli investimenti per ricerca e sviluppo tecnologico è la Norvegia. L’Italia è in fondo alla classifica.

Si potrebbe obiettare che questa ricerca è datata vent’anni. Guardiamo allora il recente Indice di digitalizzazione dell’economia e della società (DESI 2020) della Commissione europea: su 28 Stati membri dell’UE l’Italia risulta in 25° posizione, davanti solo a Romania, Grecia e Bulgaria.  Se si osserva solo l’indice denominato “capitale umano”, l’Italia è addirittura ultima. Dai dati riferiti al 2019, solo il 42% delle persone tra i 16 e i 74 anni possiede almeno competenze digitali di base (58% in Ue, 70% in Germania); la percentuale di specialisti ICT occupati è solo del 2,8% (3,9% in Ue e in Germania); solo l’1% dei laureati italiani è in possesso di una laurea in discipline ICT, il dato più basso nell’UE (3,6% in Ue, 4,7% in Germania) [leggi qui].
Al basso livello di competenze digitali consegue, ovviamente, un altrettanto basso utilizzo dei servizi.

Questa è la situazione, almeno in Italia (e in Spagna ho il sospetto che siano messi uguale). Quindi, quando un politico ciancia di digitalizzazione in Italia, ricordiamoci che è come un elettricista che sostiene di poter costruire l’impianto elettrico dell’Empire State Building, ma se andate a casa sua le prese non sono a norma e i fili della corrente sono scoperti. La rivendicazione di Carlos San Juan non è contro la tecnologia, ma contro la finzione del racconto secondo il quale mettere una app al posto di una persona semplifica la vita di tutti.

Forse la semplificherà ad un finlandese di settant’anni, che ha sempre il wifi sotto casa, sa usare uno smartphone e riceve un’assistenza efficiente. Viceversa la complica ad un settantenne italiano o spagnolo, che spesso non ha accesso al wifi, non sa usare uno smartphone e non riceve un’assistenza efficiente. E’ chiaro che una buona alfabetizzazione informatica è strettamente legata al grado di efficienza e fruibilità della tecnologia nel posto in cui si vive. A meno che non si pensi che l’anziano spagnolo sia biologicamente più cretino dell’anziano finlandese. Personalmente è una tesi che non mi convince: a me, il signor Carlos San Juan sembra tutto fuorché un cretino.

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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