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Una definizione di criptovaluta ci è attualmente offerta dalla normativa italiana (AML, V direttiva), che descrive la crittovaluta come una “rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente.”

Avete presente i chip con cui giocate a poker, o che lanciate sul tavolo quando puntate alla roulette, o le banconote false del Monopoli, ammesso che giochiate a soldi veri? Immaginate di smaterializzare quell’oggettino, di renderlo un messaggio digitale – per riuscire a fare questo dovreste essere un informatico con un notevole fiuto e farvi chiamare Satoshi Nakamoto, che non è il vostro nome ma uno pseudonimo. Poi immaginate di riuscire a convincere un sacco di gente a pagare in bitcoin (la più celebre delle criptovalute) e a scambiarseli, con un meccanismo che non è tanto interessante dal punto di vista informatico, quanto economico, poichè si basa sul meccanismo della domanda e dell’offerta puro. Puro, in quanto la quantità di valuta (bitcoin) in circolazione è limitata a priori, inoltre è perfettamente prevedibile e quindi conosciuta da tutti i suoi utilizzatori in anticipo. Non che non cambi nel tempo: infatti si prevede che “asintoticamente” (concetto matematico che sconfina nella metafisica) la quantità di bitcoin in circolazione cresca fino ad avvicinarsi ad un limite progressivamente maggiore, ma senza mai raggiungerlo. Ipotizzando che la domanda di questa valuta cresca in maniera più che proporzionale rispetto alla sua disponibilità, il bitcoin subirà una deflazione del valore, ovvero un aumento del valore dovuto alla relativa e costante scarsità dell’offerta rispetto alla domanda.

Come è possibile che una scrittura contabile che non ha sotto di sè alcun valore reale (non dico dell’oro o di una moneta vera di riferimento, ma nemmeno quello di una frittola o di un bulbo di tulipano, per citare la prima grande bolla speculativa della storia), se non quello conferitole dall’incrocio tra domanda e offerta, sia legale? La risposta è semplice: è legale finché un’autorità non la dichiara illegale. Ma sarebbe comunque una rincorsa infinita, tipo quella della lotta al doping: quando scopri una sostanza e la vieti, il sistema ne ha creata un’altra, che viene usata al posto della precedente fino a che non viene dichiarata illegale, e così via. Anche perché è impossibile individuare e bloccare tutti i software capaci di generare criptovalute e conseguenti scambi economici. Una guerra persa in partenza.

Allora, perchè funziona? Funziona per ragioni che sono molto più psicologiche che economiche: chiunque può accedere ai bitcoin, e nessuno li può “stampare” a piacimento (almeno, fino a che il creatore del giochino non decide di cambiare la regola). Quindi in teoria il sistema coniuga il massimo della libertà al massimo della prevedibilità: l’unica variabile che influenza il valore del mio investimento è il fatto che ci sia sempre molta più gente che lo vuole comprare rispetto a chi lo vuole vendere. Ma bitcoin non è un investimento, è una speculazione. E chi specula, prima o poi vende per realizzare il guadagno delle propria speculazione. Per cui non si lamentino le migliaia di esercizi, attività commerciali, professionisti che accettano pagamenti in bitcoin, se un giorno il controvalore reale dei loro incassi non varrà un tubo. Perchè non c’è un regolatore, il regolatore è il mercato, puro. E’ democratizzazione della finanza, questa? No. E’ un terreno fertile per abili e disinvolti millennials o poco più che hanno colto l’affare nella sua fase ascendente, e detengono questi nulla che stanno fruttando loro un controvalore enormemente superiore a quello iniziale. Se Elon Musk investe 1,5 miliardi della sua cassa in Bitcoin (come in effetti ha fatto), il valore sale enormemente. Ma se lo stesso Elon Musk, così come chiunque detiene enormi quantità relative (rispetto al flottante in circolazione) di questi nulla, decidesse di vendere tutto all’improvviso, il valore crollerebbe. E’ già successo: nel 2017 si è passati in un amen da un valore unitario di 20.000 dollari a 3.000. Quindi altro che democrazia: il mercato non lo fanno i piccoli risparmiatori. I piccoli risparmiatori il mercato lo subiscono, come sempre. Quindi, non venite a lamentarvi con me se cadrete in disgrazia per colpa di questo delirio. Io vi avevo avvisato.

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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