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Quella cosa chiamata città
VIVERE NELLA CITTA’ SMART

Le nuove frontiere della tecnologia 

Sono bersagliato ogni giorno da messaggi di università, enti, consorzi, imbonitori che mi segnalano programmi innovativi, attività di hub tecnologici e cluster nei quali coinvolgere PMI, call per progetti smart (necessari per fare smart cose: non è uno scherzo è una affermazione sentita in una riunione) farciti di parole inglesi che spesso molti utilizzano senza ben comprenderne il significato.

Questo mi fa pensare che siamo in movimento, che la realtà è aumentata (ed essendo per molti una realtà di m…a, non è una bella cosa) e che la tecnologia aprirà nuove frontiere di innovazione e benessere, rendendo sempre più artificiale la nostra intelligenza.

La città processore

Poi sento che tra qualche decennio tutte le città costiere spariranno a causa dell’innalzamento dei mari, leggo che il rondone, che la sua strana vita obbliga a volare sempre, anche per vent’anni, tranne quando nidifica, non trova più pertugi dove montare un nido per far nascere i piccoli, a causa delle ristrutturazioni edilizie, sempre più performanti, nei nostri centri storici, rendendolo di fatto una specie in via di estinzione.

Infine prendo atto che tra cinquant’anni potremmo vivere e andare a fare acquisti nei centri commerciali su Marte o la Luna, dentro rassicuranti bolle eco-sostenibili, dove coltiveranno anche i pomodori, come a Dubai. Rimane l’amarezza che pochi potranno fare la spesa su Marte e la maggioranza morirà annegando nel Mediterraneo o in altri mari, alla ricerca di un posto da dove poter partire per l’extramondo, mentre altri andranno a sciare negli impianti artificiali, che si stanno costruendo nel deserto dell’Arabia Saudita.

In fondo l’Unione Europea in questi decenni ha finanziato, con i suoi programmi, ricerche importanti sui processi di governance innovativa, sulle smart city e sulle healthy city, e sui processi di trasferimento tecnologico, sull’innovation applicata ai processi, e la lista potrebbe continuare.

Scientismo e governance

Le tecniche analitico-diagnostiche diventano sempre più sofisticate, lo scientismo è imperante e siamo quotidianamente immersi in quadri conoscitivi talmente ricchi di dati da annullarsi, mentre gli algoritmi ci parametrizzano e orientano le scelte, anche progettuali, togliendoci il gusto dell’intuizione interpretativa.

Molti processi decisionali sono ormai sottoposti a procedure partecipative istituzionali che assomigliamo sempre più a dei giochi di società. Insomma, in questi ultimi quarant’anni il dibattito sugli habitat sostenibili e smart è stato molto intenso, in tutto il mondo e, nei documenti strategici, le nostre città vengono descritte come sostenibili, policentriche, rigenerate, attrattive, abitabili, resilienti (ora anche antifragili), competitive.

Quest’ultimo attributo è sempre più ricercato da territori, città e borghi in cerca di futuro, mentre la collaborazione, la sinergia, la cooperazione, l’inclusività sono obiettivi spesso non dichiarati o enunciati a denti stretti.

Londra, l’agora digitale di Tottenham Court Road

Quindi il futuro delle nostre città si basa su finalità che ci fanno sognare e su obiettivi ambiziosi, ma le condizioni di vita nelle città del mondo peggiorano continuamente. Il degrado ambientale degli insediamenti urbani è ormai uscito allo scoperto, grazie agli effetti generati dai cambiamenti climatici e, riferendoci solamente agli eventi meteorici causati da inondazioni e frane, in questi anni in Europa, Pakistan, Bangladesh, Libia e tanti altri paesi, il tributo in vite umane e danni è stato sempre più rilevante.

Le forme di governance diventano subdolamente sempre più autoritarie e ormai passiamo da una emergenza generata dalla siccità ad un’altra causata da troppa pioggia, ma rimane costante l’essere in emergenza. Questa ormai rappresenta uno dei caratteri più stabili della nostra quotidianità.

Un nuovo linguaggio

Rifletto su questo mentre mi trovo, mio malgrado, coinvolto in un seminario di un cluster che si occupa di sea inteso come spazio di contatto tra water e coast, per cui pensare politiche di sustainability per il futuro della Blue Economy, favorendo i processi bottom up per il local development.

A un certo punto, saltando tutta la programmazione degli speach (il mio compreso), viene data la parola all’executive di una development agency di Ancona che, con un inequivocabile accento marchigiano, propone di costruire una library per il boosting degli aiuti alle comunità local nel processo di empowerment, perché la storia è one way, conclude l’executive.

Of course, penso io e tornato a casa prenoto il booster, per evitare di ricadere nel lockdown, visto che a giorni aprirò la mia classroom per le lezioni in blended. Dopo di che apro il giornale e scopro che uno dei problemi dell’Italia è di rafforzare le skill giuste per favorire il Digital progress del paese.

Per questo è nata la Italian Tech Academy presso il Talent Garden di Roma Ostiense, i cui corsi consentiranno di colmare il mismatch che ancora ci contraddistingue. Questo grazie all’hub di Gedi Italian Tech, che sta lavorando intensamente per rendere le nostre città sempre più smart, contribuendo alla formazione dei talent del futuro.

Un mondo smart: opportunità e diseguaglianze

Per concludere, siamo sicuri che lo scenario smart sia una straordinaria opzione per tutti o invece non rafforzerà le disuguaglianze? L’impressione è che la concezione smart della vita e della città stia creando un numero sempre maggiore di disadattati.

Inoltre, sono convinto che il mondo smart sia anche una grande fregatura. Paghi e ti fai tutto: check-in, invio bagagli con relativa pesatura, ti prendi il cibo te lo scaldi e poi devi anche pulire il tavolo, meno persone lavorano e se lo fanno la loro condizione è precaria (flessibile?), nel mentre i servizi alla persona spariscono, tu parli con un algoritmo che tra le opzioni che ti enuclea (le domande frequenti) e la tua manca sempre, e le company aumentano i dividendi.

Guarded Bus Stop. Un esempio di agorà virtuale: una signora da sola di notte alla fermata dell’autobus in una città brasiliana, dopo una dura giornata di lavoro, probabilmente sottopagato. Nell’attesa, potrà parlare con le operatrici virtuali che dallo schermo che le terranno compagnia e le daranno dei consigli. La qualità delle condizioni di lavoro della persona, e di mobilità non interessano a Eletromidia, gestore tecnologico dell’agorà, anzi più si aspetta l’autobus meglio è.

La città smart e gli anziani. In Italia e nel mondo gli anziani sono una componente molto rilevante, spesso la loro scarsa attitudine a rincorrere il progresso tecnologico, smart, li taglia fuori anche dall’accesso a servizi essenziali. Se non hanno uno smartphone, un indirizzo e-mail, un computer, o un figlio, o un nipote con competenze digitali, diventa per loro impossibile accedere ai bancomat, alle prestazioni sanitarie, all’acquisto di un titolo di trasporto, al rinnovo della tessera sanitaria o del documento di identità.

Alcuni mesi fa io e mia moglie a Venezia abbiamo assistito un signore anziano, che si aggirava spaesato attorno al bancomat dove avevamo prelevato del denaro. Non era la sua banca ci dice, quella l’hanno chiusa, e ora si trova con un rettangolo di plastica che deve inserire in una fessura di un apparecchio che non conosce ed è intimorito. Gli abbiamo prelevato i soldi, gli ultimi della sua pensione minima mensile, ci dice ringraziandoci molto per l’aiuto.

Comunque, l’esperto di innovation management ci direbbe che a breve, queste “figure” sono destinate a morire, e i futuri anziani sono più preparati alla digital transformation.

La città smart e l’arte dell’arrangiarsi. Mi sono svegliato un giorno con un forte capogiro e nausea, probabilmente causato dall’uso intensivo dei ventilatori. Il mondo girava intorno a me, le righe del libro si intrecciavano tra di loro, cambiando il senso di ciò che leggevo, i colori dello schermo del portatile animavano immagini in movimento dal sapore futurista, affacciandomi alla finestra mi sembrava di vivere in una città di Fritz Lang o Robert Wiene.

Telefono al medico, gli spiego la situazione, che lei immediatamente associa a un comune attacco di cervicale. Serve un medicinale! Mi viene dato il nome e la dose, ma si tratta di un farmaco da banco quindi serve la ricetta, ma essendo in una fascia particolare la prescrizione non può essere rilasciata attraverso il fascicolo elettronico (tecnologia smart).

Devo quindi andare a prenderla, mi dice la dottoressa, ma scusi, gli rispondo, visto che abito dall’altra parte della città come posso prendere l’auto o la bicicletta visto che i capogiri mi portano a confondere i punti cardinali? Allora deve aspettare che le passino i capogiri e poi venire; la mia risposta è immediata: ma se mi passano i capogiri non mi serve più il medicinale, e allora deve mandare qualcuno, mi viene risposto.

Bello questo paese che non ti mette mai in condizione di essere totalmente indipendente. È più importante che sia smart la tecnologia (il fascicolo elettronico) o la modalità di gestione del servizio?

Comunque si parla sempre di smart city e mai di smart urbanisation, forse perché la prima è indentificata con un microcosmo tutto sommato in equilibrio (anche se spesso instabile), che le narrazioni e le retoriche rendono armonico, anche dicendo bugie, mentre nella seconda si dovrebbe rendere smart il conflitto, la dissonanza, la frammentazione, l’informalità, la disuguaglianza, la violenza.

 

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Romeo Farinella

Romeo Farinella, architetto-urbanista e professore ordinario di Progettazione urbanistica presso l’Università di Ferrara. Si occupa di problematiche urbane e paesaggistiche da almeno trent’anni. Prima di approdare a Ferrara ha vissuto in diverse città, tra cui Roma e Parigi e quest’ultima è diventata uno dei suoi temi principali di ricerca. Oltre a Ferrara ha tenuto corsi anche in Francia (Lille, Parigi), Cina (Chengdu), L’Avana e São Paulo e Saint Louis du Senegal. È stato direttore per alcuni anni del Centro di Ateneo per la Cooperazione allo Sviluppo Internazionale di UNIFE.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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