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Consolate

«A chi ti confronterò? A chi t’eguaglierò, o figlia di Gerusalemme? A chi t’assomiglierò per consolarti, o vergine figlia di Sion? Immenso come il mare è il tuo cordoglio: chi mai ti appresterà rimedio?» (Lam 2,13-15).

Il 17 gennaio è stata la giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo ebraico-cristiano. Nell’Evangelii gaudium leggiamo che «la Chiesa condivide con l’Ebraismo una parte importante delle Sacre Scritture, considera il popolo dell’Alleanza e la sua fede come una radice sacra della propria identità cristiana (cfr. Rm 11,16-18)» (n. 247).

La riflessione comune parte sempre da un testo delle Scritture e quest’anno si è scelto un passo del profeta Isaia. È un annuncio di consolazione per il popolo, chiamato a stare saldo nella fiducia che il suo Signore non lo abbandonerà: «Nahamù nahamù ‘ammì, Consolate, consolate il mio popolo» (Is 40,1).

Il testo isaiano ha una specifica collocazione nella liturgia ebraica: si situa al termine di tre settimane, in estate, segnate dal digiuno e dalla preghiera, durante le quali si ricordano le distruzioni del primo e del secondo Santuario di Gerusalemme insieme ad altri eventi luttuosi della storia ebraica.

All’inizio vengono letti testi profetici minacciosi che promettono guai per l’infedeltà e l’ingiustizia che Dio trova nel suo popolo, ma poi alla fine di questi tre sabati di desolazione e di minacce e di abbandono seguono sette sabati di consolazione. Come a dire il prevalere in modo esponenziale, esondante della consolazione sulla disperazione; la volontà smisurata di prossimità al posto dei pensieri minacciosi di separazione e lontananza.

Così le parole di Isaia si mutano da ostili, inquisitorie e sfavorevoli in parole di consolazione, di condivisione e di presenza dentro all’afflizione. «Il popolo di Israele, pur colpito da sciagure, sa che dopo il lutto viene la consolazione, la vita riprende, il legame con il Signore torna ad esprimersi su toni più sereni, nell’attesa fiduciosa della completa redenzione, su questo percorso il messaggio è sempre valido» (dal testo del Consiglio dell’Assemblea Rabbinica Italiana).

Isaia profeta dalle duplici profezie

I capitoli dal 40 al 55 di Isaia formano come un libro a sé chiamato Il libro della consolazione. Non per caso infatti viene detto: “Geremia ferisce Isaia risana”. Ma Isaia è anche il profeta delle doppie profezie: «Tutti i profeti fanno profezie semplici, tu invece le fai duplici: “Svegliati, svegliati” (Is 51,9; 51,17); “Gioisci, gioirò” (61,10); “Io, io” (51,12) e “Consolate, consolate” (40,1)» (in Pesikta de-Rav Kahana 16). Quasi un invito a credere veramente che l’ultima parola non è sventura, desolazione ma il suo contrario.

Ripetizione che intende rafforzare la veridicità e la certezza di queste parole: «”Io, io sono il vostro consolatore”. Perché si dice due volte “Io, io”? Perché sul Sinai ricevettero due io: Io sono il Signore tuo Dio (Es 20, 2). E Io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso (Es 20, 5). Per questo il Santo – sia benedetto! – è il vostro consolatore con due io: Io, io sono il vostro consolatore».

Il secondo io svela un’appartenenza di amore. Una doppia firma per un’alleanza nunziale, irrevocabile, ulteriore continuità della promessa a una duplice fedeltà, autenticata due volte, quasi a sottolineare la tenacia di una parola data, di un amore geloso.

Nei sette sabati si leggono selezioni di brani profetici disposti come a formare un dialogo ideale, un intreccio dialogico tra le parole dei profeti, del popolo e del suo Dio. Un’omelia rabbinica riporta questi dialoghi. Dapprima Dio manda Abramo, Isacco e Giacobbe con messaggi di consolazione, ma essi falliscono nel dare consolazione.

Poi ci riprova con i profeti, ma anche le loro parole non riescono a consolare. I sentimenti del popolo restano infatti confusi e incerti perché ad ogni parola di consolazione il popolo – rappresentato nella figura della figlia di Sion – ricorda anche le precedenti parole di minaccia e di ostilità, tanto da generare una grande insicurezza e profonda inquietudine.

Così il popolo diffidente, disperato e provato dalle sciagure non sa darsi consolazione e dice: «il Signore mi ha abbandonato, il mio Signore mi ha dimenticata» (Isaia 49,14). E ogni volta gli inviati ritornano a Dio senza esser riusciti nella loro impresa. Da ultimo ci proverà il profeta Malachia, pure lui senza esito; così dopo quell’ultimo tentativo andato a vuoto Dio prenderà una decisione: quella di andare lui stesso a consolare il suo popolo.

Nella seconda Omelia (Sete del Dio vivente, Omelie rabbiniche su Isaia, Città Nuova, Roma 1981, 83-84) la figlia di Sion dice al profeta Malachia: «Ieri mi hai detto: Non c’è in me alcun compiacimento di voi, dice il Signore delle schiere (Mal 1, 10). Ed ora tu dici: Voi sarete terra di compiacimento? A che crederemo? Alle prime parole o alle ultime? Come mi consolate invano! Perché? Perché delle vostre risposte non resta che perfidia! Di parole come queste ne ho udite molte, voi tutti siete consolatori di afflizione”. Tutti i profeti vanno dal Santo – sia benedetto! – e gli dicono: “Signore del mondo, abbiamo cercato di consolarla e non ha accettato!”. Dice loro il Santo – sia benedetto! -: “Venite con me. Io e voi andremo da lei e la consoleremo”».

Rifiutando le consolazioni dei profeti, perché vane, e volendo Lui solo, la figlia di Sion lo attira a sé. Sion ha vinto sul cuore di Dio; la consolazione del cuore è opera propria di Dio; essa viene raffigurata nei profeti a volte con l’immagine di una madre o con quella del pastore e infine essa viene rappresentata con la sponsalità.

«Sì, non ti si dirà più abbandonata e alla tua terra non si dirà più desolata, perché tu sarai chiamata: “Il mio compiacimento è in lei” e alla tua terra si dirà “Sposata” perché il Signore si compiacerà di te e la tua terra avrà uno sposo» (Is. 62, 4).

È questo è il vertice della consolazione, il punto ultimo della storia: «Tutte le Scritture sospingono qui, al compimento perfetto di ogni desiderio di Dio e di ogni desiderio dell’uomo. Anche la liturgia sinagogale ha cura di custodire la tensione del cuore verso questo punto, celebrando assai spesso il tema delle nozze. Ogni settimana Israele va incontro al sabato come alla sposa e nel mistero del sabato celebra l’unione trasformante di Dio con la sua creatura (Abrahm Joshua Heschel, Il sabato)» (ivi 101).

Duplice pure l’“Amen” del Cristo

Viene in mente l’evangelista Giovanni quando, a differenza degli altri sinottici, ripete due volte l’amen di Gesù ogni qual volta egli vuol sottolineare l’importanza decisiva di una sua parola: «Amen, amen dico vobis/ in verità, in verità io vi dico». Amèn è parola dell’ebraico biblico (aman) che significa fermo, stabile. Indica i pilasti di una porta, ma anche le braccia che portano un bambino e lo educano. Esprime così affidabilità, ma anche tenerezza come un cuore che sta sicuro, fidente davanti alla parola di Dio. Traslitterata nel greco del Nuovo Testamento significa ‘è così’, ‘così sia’; e come avverbio significa ‘certamente’, ‘in verità.

In Giovanni il doppio amen compare 25 volte e nell’Apocalisse giovannea diventa una parola personificata: il Cristo è designato come ò Amèn/ l’Amen di Dio, il testimone fedele e veritiero. E Paolo ricorderà che tutte le promesse di Dio hanno il loro «sì» in lui. Perciò pure per mezzo di lui noi pronunciamo l’Amen alla gloria di Dio. (Cf. 2 Cor 1,20).

Va sottolineato ancora come, nel vangelo di Giovanni, Gesù indichi indirettamente se stesso come il Consolatore, colui che è chiamato vicino, quando prometterà ai discepoli alla sua partenza la venuta di un altro consolatore: «pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi… In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi» (Gv 14, 16-17; 12).

Così lo Spirito santo aggiungerà consolazione a consolazione fino a fare di voi stessi capaci di consolazione. È l’intuizione di Paolo: “consolati per consolare”: «Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare” quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio»(2 Cor 1,4).

L’Amen è un compimento, un punto di arrivo della stessa fede ma pure un nuovo inizio; l’Amen è quella soglia raggiunta che dà stabilità e che permette una ripartenza che rimette in cammino, nell’amen la forza di ricominciare a sperare.

Di cosa parliamo quando diciamo consolazione?

Parliamo di un luogo di prossimità, di una terra di mezzo, una pratica di umanità nel tempo presente, nell’oggi. Consolazione come esercizio quotidiano, dare e ricevere il pane, farsi vicino e chiamare vicino che tiene insieme il già e il non ancora, l’utopia e il disincanto, direbbe Claudio Magris. La consolazione è la trama che permette la resistenza di comunanza nelle cose avverse; un passo ancora del cammino tra questi due poli; chi consola fa strada, avanza in compagnia, oltre ogni impedimento.

Scrive Magris: «Il destino di ogni uomo, e della storia stessa, assomiglia a quello di Mosè, che non raggiunse la Terra Promessa, ma non smise di camminare nella sua direzione. Utopia significa non arrendersi alle cose così come sono e lottare per le cose così come dovrebbero essere; sapere che il mondo, come dice un verso di Brecht, ha bisogno di essere cambiato e riscattato.

Il risveglio religioso, che pure così spesso degenera nei fondamentalismi, ha la grande funzione di ridestare il senso dell’oltre, di ricordare che la Storia profana di ciò che accade s’interseca di continuo con la Storia sacra, col grido delle vittime che chiedono un’altra Storia e che, nel Giorno del Giudizio, presenteranno a Dio o allo Spirito del Mondo il libro dei conti e li chiameranno a rendere ragione del mattatoio universale» (Utopia e disincanto, Garzanti, Milano 1999, 11).

Levatrice di speranze

Quando parliamo di consolazione parliamo di speranza. Essa è levatrice di speranza che paradossalmente nasce proprio nel travaglio del disincanto e del disamore: «Il disincanto, che corregge l’utopia, rafforza il suo elemento fondamentale, la speranza. Che cosa posso sperare? La speranza non nasce da una visione del mondo rassicurante e ottimista, bensì dalla lacerazione dell’esistenza vissuta e patita senza veli, che crea un’insopprimibile necessità di riscatto. Il male radicale – la radicale insensatezza con cui si presenta il mondo – esige di essere scrutato sino in fondo, per essere affrontato con la speranza di superarlo.

Charles Péguy considerava la speranza la virtù più grande, proprio perché l’inclinazione a disperare è così fondata, così forte, ed è così difficile, come egli dice nel Portico del Mistero della Seconda Virtù, riconquistare la fantasia dell’infanzia, vedere come tutto avviene e nondimeno credere che domani andrà meglio.

La speranza è una conoscenza completa delle cose, non solo di come esse appaiono e sono, ma anche di come devono diventare per essere conformi alla loro piena realtà non ancora dispiegata, alla legge del loro essere. Essa s’identifica con lo spirito dell’utopia, come insegna Bloch, e significa che dietro ogni realtà vi sono altre potenzialità, che vanno liberate dalla prigione dell’esistente. La speranza si proietta nel futuro per riconciliare l’uomo con la storia, ma anche con la natura, ossia con la pienezza delle proprie possibilità e delle proprie pulsioni. Questo spirito dell’utopia è custodito soprattutto nella civiltà ebraica, nell’indomita tensione dei suoi profeti» (ivi, 14).

Consolazione è un fuoco tra i rovi

Quando parliamo di consolazione parliamo di un roveto ardente simile a quello visto da Mosè al Sinai: l’esserci dell’altro tra le nostre spine, come un fuoco che brucia senza consumare: «Il Santo, benedetto sia, disse a Mosè: “Non senti che io sono nel dolore proprio come Israele è nel dolore? Guarda da che luogo ti parlo: dalle spine! Se così si potesse dire, io condivido il dolore di Israele”. Perciò si legge anche (Isaia 63,9): “In tutte le loro angustie Egli fu afflitto.”» (da Esodo Rabhah, 2,5).

Consolazione: il silenzio narrante degli alberi

Dicendo consolazione parliamo pure del silenzio degli alberi in inverno, spogli e gocciolanti sotto la pioggia, in pianto. Stando in mezzo a loro, consola la compagnia del loro silenzio, quella che si fanno l’uno all’altro, il silenzio di uno custodisce il silenzio degli altri; parole nel silenzio, le loro, in attesa che la nudità scheletrica del legno si rivesta ancora una volta di foglie e fiori fruttiferi.

Di queste azzurre argille, alberi, sono
come voi, figlio e tutti qua mi siete
dunque fratelli…
Qui frutto
divien quasi ogni fior; ma, sorta appena,
ogni speranza tua cade e si perde.
È vero; è peggio anzi ora: un nudo tronco
screpolato or son io: piante sorelle,
consolatemi voi! Foglie non ho
né frondi più da riparare un nido;
e d’invocar mi resta, unica e vera
grazia per me, la scure.
Oh tu, soave
brezza, che su dal mar prossimo spiri
e queste frondi amiche in un amplesso
lieve ed ampio commuovi, agita pure
col fresco soffio i pensier miei. Tu, vento
impetuoso, forse, in alto mare,
or brezza qui, d’un naufragio orrendo
vieni a cercar tra queste foglie oblio?
Pace è qui tutto: qualche foglia teco
vola, poi lenta cade a terra, dove
ferme radici han gli alberi. Da un altro
più fosco mar son qui venuto anch’io
per pace, come te.
Qualche bizzarra
storia d’uccelli, alberi miei, col lieve
frusciar continuo delle foglie, mentre
all’ombra vostra giaccio, orsù, narrate.
(Luigi Pirandello, Sinfonia rurale, Poesie sparse, in La vita letteraria, Roma, anno IV, n. 7, 22 febbraio 1907).

La consolazione della liturgia

Amico è colui che è invocato e chiamato vicino: il consolatore. Nella liturgia sinagogale del venerdì sera si dice: «Vieni, amico, incontro alla sposa [il sabato]; il volto del sabato accoglieremo».

Ancor più suggestivo è questa invocazione per la liturgia del sabato:

O Amico dell’anima,
Padre delle misericordie,
attira il tuo servo nel tuo beneplacito,
correrà il tuo servo come un cerbiatto,
adorerà prostrato davanti alla tua gloria,
gli piaceranno i tuoi amori
più del nettare di miele e di ogni sapore.
O Magnifico, o Amabile, o Splendore eterno,
l’anima mia è malata del tuo amore,
ti prego, o Dio, orsù, guariscila,
facendole vedere
la dolcezza del tuo splendore;
allora sarà forte e sana
e avrà gioia eterna.
O Antico, si commuovano infine
le viscere della tua misericordia,
abbi pietà del figlio della tua diletta,
perché di questo languisce.
Desiderando desidero con ardore
di vedere lo splendore della tua gloria.
Questo brama il mio cuore.
Abbi pietà, infine, e non nasconderti.
Rivelati, dunque, o mio diletto,
e stendi su di me
la tenda della tua pace.
Risplenda la terra della tua gloria.
Esulteremo e ci allieteremo in te,
affrettati, o Amato,
perché viene il tempo
ed abbi pietà di noi
come ai giorni dell’eternità. Amen.
(nel libro Rinnàt-Israel, in Sete del Dio vivente, 101-102).

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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