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Nella settimana decisiva per il Referendum del 4 dicembre, oltre che per il futuro del Governo Renzi, fra le tante voci di questa aspra campagna elettorale, una delle più interessanti da ascoltare nel panorama locale ferrarese è quella di Francesco Colaiacovo.
Attuale Presidente del Conservatorio di Musica Girolamo Frescobaldi e con una formazione giuridica, Colaiacovo ha alle spalle diverse esperienze, da quella militare in aeronautica a quella politica in qualità di Presidente della Circoscrizione Nord-Ovest di Ferrara dal 1997 al 2004 e di Presidente del Consiglio Comunale di Ferrara dal 2009 al 2014, oltre alle quelle di volontariato in realtà quali “Agire Sociale” e “Città del Ragazzo”.
Una conoscenza profonda e ricca di sfaccettature, con le idee molto chiare su come realmente funzioni la riforma e su quale decisione secondo lui più saggio prendere.

Nel quesito referendario se ne parla, ma in realtà pochi sanno di che cosa si tratti: che cos’è il Cnel?
Il Cnel è il Comitato Nazionale dell’Economia e del Lavoro; si tratta di un organismo di valenza costituzionale che aveva lo scopo di fare proposte di legge da proporre in Parlamento in tema, appunto, di economia e di lavoro. Doveva essere una fonte di idee ma in realtà ha fatto poco più di dieci proposte in 70 anni anni a fronte di un costo molto importante in termini di indennità e di infrastruttura burocratica.

Con la riforma verrebbe meno il bicameralismo perfetto, ma non il bicameralismo. Come funzionerebbe il nuovo modello e che vantaggi porterebbe?
Il principale effetto della riforma da questo punto di vista sarebbe quello di mettere solo in capo alla Camera dei Deputati, eletta a suffragio universale, l’emanazione delle leggi e la fiducia al governo. Si tratta del modello che adottano tutti i principali paesi democratici occidentali. Il Senato avrebbe, invece, poteri limitati rispetto a prima in campo legislativo. Rimarrebbe tuttavia il sistema attualmente in vigore nel bicameralismo perfetto per quanto riguarda le leggi di modifica costituzionale, gli ordinamenti territoriali e le leggi che disciplinano la presenza dell’Italia nell’Unione Europea. Si tratterebbe del 3% delle leggi che vengono fatte, per il resto il Senato avrebbe prettamente una funzione di proposte ed emendamenti rispetto alle leggi approvate alla Camera. Da quando verrebbe approvata una legge, il Senato avrebbe 10 giorni di tempo per chiedere di poter discutere di quella legge e 30 giorni per esprimere un parere rispetto al quale la Camera dovrebbe poi pronunciarsi in via definitiva.
Il Senato diverrebbe la “Camera delle Autonomie”, in quanto vi sarebbero i rappresentanti delle Regioni, oltre a 21 sindaci e diverrebbe il luogo dove tali rappresentanti potrebbero far valere le ragioni territoriali. A oggi il dibattito rispetto agli interessi e alle esigenze delle Regioni avviene nelle Conferenze Stato-Regioni, una volta che le leggi sono approvate. Tali conferenze hanno quindi un mero potere consultorio. Riguardo a tali leggi, invece, il nuovo Senato potrebbe proporre emendamenti prima della conclusione del processo legislativo, e anche l’eventuale bocciatura di tali emendamenti da parte della Camera, sarebbe un atto politico molto pesante. Inoltre il Senato parteciperebbe direttamente all’elezione del Presidente della Repubblica: con la riforma, il quorum dei tre quinti dalla quarta votazione implica una maggioranza più ampia rispetto a quella che sostiene il Governo e questo darebbe un peso al Senato ben maggiore di quello attuale, soprattutto nel momento in cui vi fossero due maggioranze diverse. Una grande novità sarebbe l’obbligo per i parlamentari di partecipare alle sedute, cosa che oggi non è presente nella Costituzione permettendo un tasso di assenteismo elevatissimo.

Qualora la Camera agisca contrariamente a un emendamento emesso dal Senato sarebbe una scelta di valenza politica molto forte. Per come sarebbe costituito il nuovo Senato, però, sarà molto più facile rispetto a prima avere una maggioranza di colore diverso qui e alla Camera. Rischieremmo quindi una deriva autoritaria da parte di quest’ultima?
È sempre una questione di scelta politica: non rispettare gli emendamenti proposti dal Senato quando ci sono in gioco politiche che hanno a che fare coi territori, per esempio il bilancio della sanità, significherebbe assumersi la responsabilità politica di dover affrontare l’opinione dei territori, i cui residenti esprimeranno i propri giudizi tramite il voto. Chiaramente a volte la Camera avrà l’onere di prendere decisioni contro agli interessi dei singoli territori, ma si tratta di una cosa che già accade, se non altro la riforma permetterebbe un momento di dibattito.

Il quesito referendario è stato da più parti accusato di essere populista, lei cosa ne pensa?
Il quesito è effettivamente accattivante, può essere populista lo sbandierare i risparmi che si otterrebbero con la riforma, ma ci sono dei fatti che sono oggettivi. La democrazia ha sempre un costo, però una buona democrazia può funzionare in maniera virtuosa. Il principale scopo della riforma è quello di rendere più efficiente il funzionamento dello Stato ed obiettivamente ci sarebbe un risparmio evidente: si passerebbe dai 315 Senatori attuali con indennità a solo 100 senatori senza indennità aggiuntiva rispetto a quelle che già hanno per i loro incarichi territoriali. Così come non è populista abolire il Cnel, eliminando un ente inutile e riducendo i costi in maniera importante.

Ma sarebbe davvero tutto più semplice? Si dice che ci sarebbero ben dieci modi diversi per approvare le leggi, mentre prima bastava solo la doppia approvazione…
Anche oggi ci sono diversi modi oltre a quello “classico”: la legge ordinaria, il decreto legge, la legge delegata, ci sono poi forme in cui le commissioni parlamentari possono pronunciarsi in sede deliberante, ed altre ancora. Non cambierebbe più di tanto sotto il punto di vista del numero dei metodi di approvazione, il vero cambiamento sarebbe in termini di snellezza ed efficienza. Fra l’altro si eviterebbe di dover assistere a decreti legge portati avanti all’infinito come vediamo oggi.

È stato proposto, fra gli emendamenti al testo di legge, un importante taglio agli stipendi dei parlamentari. Come mai, se lo scopo della riforma è “ridurre i costi della politica”, tale emendamento è stato rifiutato? Pensa che sia stata una scelta corretta?
Non si trattava di un emendamento alla legge costituzionale, in quanto la nuova legge costituzionale non parla degli stipendi dei parlamentari, ma dice soltanto che dove i senatori prima potevano godere di un’indennità, in futuro non avranno più tale diritto. Si trattava di una proposta di legge ordinaria da parte dei Cinque Stelle, il fatto è che quando si parla di un’indennità di un parlamentare la cosa va discussa in modo organico e non con una proposta di legge spot. A ogni modo è molto più importante in questo momento che il parlamentare abbia un obbligo di presenza sul posto di lavoro piuttosto che la riduzione del suo stipendio. È curioso fra l’altro il fatto che il partito che ha proposto tale disegno di legge sia stato lo stesso a nominare un Capo di Gabinetto a Roma con uno stipendio di 293mila euro. Non si può fare un ordine del giorno soltanto per mettersi in evidenza, bisogna ragionare concretamente su cosa serva all’Italia per funzionare meglio.

Sempre in tema di potere al popolo, con il progetto di riforma passerebbe da 50.000 a 150.000 il numero di firme necessarie alle leggi di iniziativa popolare.
Oggi bastano 50.000 firme per le proposte di legge di iniziativa popolare, ma quello che manca è l’obbligo di discussione in Parlamento riguardo a tali leggi. Perciò in 70 anni di Costituzione abbiamo avuto pochissimi disegni di legge di iniziativa popolare discussi in Parlamento, generalmente tali proposte non vengono neanche prese in considerazione. Se si vuole dare dignità al cittadino che si mette in strada a raccogliere firme bisogna garantirgli che il disegno di legge per cui si batte andrà discusso. La riforma introduce quest’obbligo per il parlamento previo il raggiungimento di un numero maggiore di firme, 150.000 appunto. Ma non è tutto: la norma costituzionale oggi dice che il cittadino per richiedere un referendum abrogativo deve ottenere 500.000 firme e perché tale referendum sia valido bisogna raggiungere il quorum del 50%+1 degli aventi diritto. Tutto questo con la riforma rimane. La grande novità sta nel fatto che se il quesito ha un sostegno popolare così forte da raggiungere le 800mila firme, perché il referendum sia valido basta raggiungere un quorum del 50%+1 degli elettori alle scorse elezioni politiche.

Matteo Renzi la scorsa primavera disse che se avesse fallito il referendum avrebbe lasciato la politica, in questo modo ha portato quello che doveva essere un referendum costituzionale ad essere un voto sulla sua persona, crede che sia stata una buona idea?
No, l’ho criticato subito perchè la Carta Costituzinale deve andare al di là delle persone e dei partiti: tutti i cittadini vi si devono riconoscere. Si ha una vera democrazia nel momento in cui può esserci alternanza, e deve essere garantito il buon governo di chiunque venga eletto e abbia la rappresentanza. Per questo Renzi ha sbagliato a personalizzare il referendum, se n’è poi reso conto e ha cercato di rimediare ma ovviamente le controparti non si sono lasciate sfuggire l’occasione di sfruttare questo errore che gli potrebbe costar caro. È anche vero che questo non è un governo politico, ma un governo nato dal fatto che nel 2013 le elezioni non le ha vinte nessuno: quando Napolitano promosse un governo di scopo ed accettò il suo secondo mandato lo fece soltanto a condizione che il Parlamento facesse le riforme. Alla luce di ciò la riforma principale è senz’altro quella costituzionale che andremo a votare il prossimo 4 dicembre. È chiaro che se non passa il referendum questo Governo non ha più ragione di esistere, ma questo non lo deve dire Renzi, è già parte del mandato.

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Fulvio Gandini


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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