Skip to main content

Il Pil è probabilmente l’indice economico più conosciuto nel mondo. Attorno all’obiettivo della sua crescita orbitano non soloil i piani economici dell’Unione Europea e le politiche economiche nazionali, ma anche una parte considerevole della dottrina economica, in cerca di modelli di studio più efficaci ed efficienti; il timore di un suo calo toglie il sonno, oltre che ad una folta schiera di macroeconomisti, anche a buona parte di cittadini risparmiatori, soprattutto a coloro che appartengono alle fasce di reddito inferiori: proprio questi hanno imparato a loro spese nel recente passato cosa significhi trovarsi in una recessione senza apparente via d’uscita.
Oggi gli obiettivi economici principali dell’Ue di fatto sono la crescita del Pil, la crescita del Pil pro capite e un rapporto deficit/Pil non superiore al 3%; allo stesso modo in termini di Prodotto interno lordo si misurano gli obiettivi verso cui la Banca Mondiale orienta i Paesi ad economie arretrate tramite i suoi investimenti. Nel tempo il termine Pil è divento sinonimo di sviluppo; e dello sviluppo è stato misura, ma qui dovrebbe sorgere una domanda: cosa si intende per sviluppo?

Il concetto di sviluppo è presente nella società fin dall’antichità classica. Allora esso era privo del significato economico che attualmente lo contraddistingue, si trattava piuttosto di aumento del benessere inteso come crescita spirituale dell’individuo. Tale concetto è rimasto pressoché invariato fino all’avvento del mercantilismo nell’Europa del XVI secolo. A quell’epoca l’idea di crescita venne riformulata in maniera decisamente più materialista: è il progresso materiale dell’uomo a determinarne lo sviluppo, inteso per le persone come aumento del reddito e dei beni a disposizione, per gli Stati come affermazione della propria potenza militare e della propria egemonia territoriale. Idee queste che vengono “esasperate” con il calvinismo, nel quale vi è addirittura una correlazione fra fede e predestinazione alla ricchezza e all’affermazione sociale. La secolarizzazione della società europea ha portato a una radicalizzazione dell’antropocentrismo: un esempio lampante può esserne il movimento illuminista del XVII secolo, in cui vi è uno strettissimo legame fra sviluppo economico e progresso scientifico, che assume anche il significato di dominio sulla natura.

Il concetto di sviluppo economico ha quindi coinciso sempre più con quello di produzione di merci scambiabili sul mercato e dotate di prezzo, questo è stato il motivo fondamentale per cui, dal dopoguerra, si è adottato il Pil come unità di misura dello sviluppo dei paesi. Per PIL (Prodotto interno lordo) si intende il valore di tutti i beni e servizi finali, materiali e non, prodotti all’interno di un Paese in un certo periodo di tempo, generalmente pari ad un anno, al netto delle transazioni intermedie. Come indice di benessere delle persone invece è stato considerato il rapporto fra il Pil del Paese ed il numero dei suoi abitanti, il Pil pro capite. Utile inoltre la distinzione fra Pil nominale e Pil reale: il primo è la somma delle quantità dei beni finali valutati al loro prezzo corrente, il secondo la somma delle quantità dei beni finali valutati a prezzi costanti, ossia al netto delle oscillazioni monetarie (inflazione e deflazione). Se il Pil pro capite indica il livello di reddito all’interno di un Paese e viene considerato come indice di benessere dei suoi cittadini, la sua variazione ne indica il tasso di crescita o decrescita: i periodi in cui esso aumenta sono chiamati espansioni, i periodi in cui esso diminuisce recessioni.

Il Pil e il Pil pro capite di cui spesso sentiamo parlare nei telegiornali sono quindi utilissimi strumenti per valutare lo stato di salute dell’economia dei Paesi, ma sono davvero anche di validi indici per il benessere delle popolazioni? A dire il vero no, si tratta piuttosto di un’approssimazione economica che andrebbe presa molto più “con le pinze” rispetto a come viene fatto ancora oggi: il Pil infatti, come detto, tiene conto del valore prodotto, ma non considera fattori fondamentali per determinare il benessere delle persone, primo fra tutti la polarizzazione del reddito, ossia una sua iniqua distribuzione: secondo i dati Istat, il Pil pro capite italiano nel 2013 era di quasi 25.500 euro, ma, sempre secondo Istat, ad uno sguardo più approfondito appare evidente il divario di reddito fra le Regioni del Nord, del Centro e del Mezzogiorno. Calcolato in base alle regioni il Pil pro capite è risultato pari a 33.500 euro nel Nord-ovest, a 31.400 euro nel Nord-est e a 29.400 euro nel Centro, mentre il Mezzogiorno, con un livello di PIL pro capite di 17.200 euro, ha presentato un differenziale negativo molto ampio: il suo livello è stato inferiore del 45,8% a quello del Centro-Nord. Non solo considerare il Pil pro capite a livello nazionale non permette di cogliere le differenze a livello regionale presenti in un Paese, ma in qualsiasi caso questo venga utilizzato tenderà ad “appiattire” la realtà. Si pensi ad esempio ad una coppia di cittadini, uno ricchissimo ed uno poverissimo: chi si trovasse di fronte al Pil pro capite calcolato sulle loro ricchezze otterrà l’immagine di due persone benestanti e non potrà pensare di attuare interventi mirati in favore del più bisognoso.
Così come per la polarizzazione, l’indice Pil trascura anche molti altri fattori determinanti, come ad esempio il tasso di mortalità infantile, il livello d’istruzione, la speranza di vita, il tasso di tecnologia, la salubrità ambientale, la disoccupazione, l’equità fra i sessi, la democratizzazione, l’efficienza delle strutture sanitarie eccetera. Inoltre il Pil non solo può portare ad una visione ipersemplificata della realtà, ma anche ad una sua vera e propria distorsione: si pensi al caso di un disastro naturale, tutti concorderanno sul fatto che questo causi un peggioramento della condizione delle persone coinvolte. Tuttavia, a seguito di tale disastro, si avvierà la macchina dei soccorsi e delle eventuali ricostruzioni e riparazioni dei danni arrecati dalla sciagura. Questi hanno un prezzo e andranno a far parte del Prodotto interno lordo che, paradossalmente, potrà crescere non per un effettivo aumento del reddito delle persone bensì per i movimenti monetari causati dalla sciagura, non certo fonte di benessere.

Nel tempo gli economisti e i sociologi si sono sempre più interessati alla ricerca di un indice in grado di fornire precise informazioni circa il benessere delle popolazioni non più unicamente basato sulla ricchezza prodotta. Il principale contributo a riguardo è stato offerto, nel 1993, dagli economisti Mahbub Ul Haq e Amartya Sen, i quali progettarono l’Isu (Indice di sviluppo umano), di cui parlerò nei prossimi articoli.
Il valore prodotto in un’economia e la sua crescita sono fattori fondamentali del benessere della popolazione, ma non sono gli unici. Proprio in questo sta la risposta alla domanda posta ad inizio articolo: lo sviluppo non concerne esclusivamente la ricchezza monetaria disponibile per le persone, bensì tutto ciò che può concorrere alla loro sicurezza, alla loro salute e alla loro autorealizzazione, in definitiva al loro benessere. Il Pil e la sua crescita sono sicuramente un buon punto di partenza, ma i veri obiettivi da raggiungere sono molto più lontani, tanto lontani quanto i traguardi di vero sviluppo equo e sostenibile.

tag:

Fulvio Gandini


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

Periscopio è  proprietà di un azionariato diffuso e partecipato, garanzia di una gestitone collettiva e democratica del quotidiano. Si finanzia, quindi vive, grazie ai liberi contributi dei suoi lettori amici e sostenitori. Accetta e ospita sponsor ed inserzionisti solo socialmente, eticamente e culturalmente meritevoli.

Nato quasi otto anni fa con il nome Ferraraitalia già con una vocazione glocal, oggi il quotidiano è diventato: Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Non ci dimentichiamo però di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno si fabbrica il giornale. e Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto. 
Oggi Periscopio ha oltre 320.000 lettori, ma vogliamo crescere e farsi conoscere. Dipenderà da chi lo scrive ma soprattutto da chi lo legge e lo condivide con chi ancora non lo conosce. Per una volta, stare nella stessa barca può essere una avventura affascinante.  Buona navigazione a tutti.

Tutti i contenuti di Periscopio, salvo espressa indicazione, sono free. Possono essere liberamente stampati, diffusi e ripubblicati, indicando fonte, autore e data di pubblicazione su questo quotidiano.

Francesco Monini
direttore responsabile


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it