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di Giordano Tunioli

È consuetudine ormai diffusa proporre le proprie creazioni fotografiche con proiezioni unite ad un sottofondo musicale. Normalmente definite “audiovisivi”, tali proiezioni possono acquisire un significato ambivalente; la consultazione di un vocabolario ci riferisce della coniugazione d’immagini e suoni ai fini di una particolare tipologia di comunicazione e non sempre chiarisce come la sinergia di mezzi espressivi diversi – immagine e musica – conducano ad un concetto multimediale più ampio da cui scaturisce un nuovo prodotto nel quale frammenti d’immagini in movimento si alternano con l’immobilità della fotografia, in un contesto in cui il suono è componente imprescindibile. In un secondo caso s’intende per “audiovisivo” la proiezione d’immagini statiche, corredate quasi sempre da un accompagnamento musicale apparentemente complementare e non essenziale. A mio parere, quest’ultimo punto di vista è riduttivo, e ci induce a considerare con maggiore attenzione il rapporto suono – immagine. Questo rapporto si è nel tempo consolidato ed è stato lungamente studiato nell’ambito cinematografico così da appartenere all’immaginario collettivo. Tra il film e l’audiovisivo fotografico emergono soprattutto due differenti elementi: la temporalità e il movimento (componenti che implicano l’evolversi di un nuovo linguaggio). Nondimeno la proiezione fotografica esige un’attenzione peculiare nel connubio tra fotografia e musica. Mi è capitato di assistere alla proiezione di fotografie perfette dal punto di vista tecnico e che possedevano un raffinato senso della composizione, tanto da rasentare la perfezione nella ricerca di un equilibrio grafico e una intuizione nell’uso del colore come raramente accade, ma… Già, c’è un “ma”! La rappresentazione era affrettata, con tempi per ogni singola immagine a dir poco insufficienti per poterla apprezzare nella sua interezza, certamente tali da non consentire il piacere di una ponderata percezione visiva.
L’aspetto, a mio parere, più negativo, fu proprio il commento musicale, del tutto improprio, disarmonico, perfino insensato nei confronti del linguaggio fotografico. Mi stupì poi la risposta dell’autore allorché gli chiesi quale criteri avesse seguito nella scelta musicale: “nessuno in particolare: mi piaceva quella musica”. Ora, premesso che ognuno è libero di pensare e agire come meglio crede, va detto che una presentazione musicale superficiale o impropria equivale ad una brutta cornice o ad una stampa non curata e può sminuire, come accadde, la poesia o il contenuto concettuale dell’immagine. Il fotoamatore dovrebbe sempre tener presente che fotografia e musica possono costituire un momento d’incontro-scontro fondamentale. Anzi! Sarebbe opportuno ricordare come la fotografia conservi nella sua composizione, tale e quale all’arte figurativa in genere e all’architettura, un senso ritmico, una “musicalità interiore” che andrebbe rispettata. Poi la fotografia è fatta anche di silenzi, di concentrazione, di sensazioni. Sarei comunque prudente nell’asserire che una visione pubblica di fotografie necessiti di un commento musicale, magari con l’unico scopo di non annoiare lo spettatore, anche perché ciò potrebbe voler giustificare un mediocre risultato o un lavoro tale da non essere in grado di coinvolgere lo spettatore, di conseguenza non meritevole di attenzione. Neppure è lecito difendersi dicendo che “non sono un musicista, non suono uno strumento, non ho studiato musica” poiché tutto ciò non è richiesto al fotografo, ma da questi, come a qualsiasi artista, ci si attende raffinatezza, gusto, cultura, sensibilità musicale necessaria, quest’ultima, ad una scelta oculata di brani conclusa in un efficace montaggio sonoro, senza che tutto ciò sottintenda una profonda conoscenza specifica. Per altro, molti fotografi del passato ne erano in possesso: Ansel Adams negli anni giovanili era un ottimo pianista classico che faceva preludere ad una brillante carriera musicale, Weegee suonava egregiamente il violino tanto da accompagnare i film del cinema muto, Florence Henri fu allievo di pianoforte a Parigi nientemeno che di Ferruccio Busoni, e molti altri ancora suonavano discretamente uno strumento o, comunque, erano uditori cólti, come William Eggleston, “Chim” Seymour, Lisette Model, James Coburn, Eugene Smith, alla stregua di fotografi che praticavano l’arte della pittura e del disegno (due tra i più grandi: Man Ray e Henri Cartier-Bresson) come vi furono musicisti a loro volta dediti alla pittura (Arnold Schönberg, per esempio) o alla fotografia.
Ovviamente non si fa qui riferimento all’impiego della sola musica cosiddetta “classica” o cólta, appartenente al passato, alle avanguardie del Novecento o al presente, ma alla musica nelle sue varie forme ed espressioni evolute in generale, appartenente sia al genere leggero (o di consumo) sia al jazz, alla musica popolare alla new-age o alla Muzak. Insomma, non è un problema di stile o di appartenenza ad un genere piuttosto che ad un altro, ma è un fattore di compenetrazione tra linguaggi diversi che, nel loro integrarsi, costituiscono una realtà complessa in cui si sviluppa una diversa poetica ed estetica. E’ il prodotto finale nella sua compiutezza che deve essere atteso, valutato ed apprezzato. E’ importante non disconoscere la fondamentale funzione semantica dell’immagine scissa da quella della musica affinché possa scaturire una nuova e diversa dimensione semantica. Non per tutti la fotografia è musica e non è detto che la fotografia debba “essere musica”; forse è meglio così. Neppure la musica deve obbligatoriamente essere al servizio dell’immagine fotografica, cinematografica o video.
Per questo mi sento di asserire che, in molti casi, è preferibile il silenzio o il commento, faceto od esegetico, alle proprie o altrui immagini piuttosto che un inopportuno rapporto sonoro tale da divenire fastidioso rumore.
D’altronde un fotoamatore evoluto non deve neppure essere un artista ad ogni costo; deve comunque possedere sensibilità artistica, curiosità, passione per la ricerca e la cultura. Deve soprattutto essere interessato a ciò che gli sta intorno; certamente può anche divertirsi scattando banali istantanee… purché non le presenti in pubblico.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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