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Quasi 80.000 persone, soprattutto giovani e giovanissimi, hanno invaso Ferrara per seguire i tanti appuntamenti del Festival di Internazionale in un’edizione, la 12esima, dai numeri record. Ma forse è importante dar conto anche di un evento collaterale, molto significativo, e nemmeno tanto piccolo, anch’esso un primato, almeno per la nostra città.
Venerdì 5 ottobre; giornata uggiosa, cinque e mezza del pomeriggio, una piccola folla si raduna davanti ai cancelli del carcere di Ferrara: 80 persone contate, più due o tre giornalisti, ma – mi dice Mauro Presini, organizzatore dell’incontro/evento ‘La città incontra il carcere’ – “Mi continuano a telefonare per chiedere un pass, ma non si poteva sforare quella quota, non c’era posto per tutti; così ho dovuto dire di no ad almeno altri cento ferraresi”.
Già, perché entrare in una Casa Circondariale non è cosa semplicissima. Bisogna qualificarsi con largo anticipo (nome, cognome, eccetera), esibire e lasciare in consegna la carta d’identità alle guardie del primo cancello, lasciare in macchina il cellulare, e poi camminare un bel po’: passare altri cancelli, cortili interni, muri di cemento armato, corridoi, porte blindate. Ora siamo entrati; lungo il percorso di avvicinamento costeggiamo un orto perfettamente manutenuto: è solo una piccola frazione del grande e ormai famoso Galeorto, il geniale progetto ideato e gestito dalla Associazione Viale K.
Ecco, dietro l’ultima doppia porta di acciaio, ci aspettano le due mostre con le opere di alcuni detenuti (pittura e fotografia) e i detenuti stessi che hanno frequentato i laboratori creativi. Insieme a loro, un altro gruppetto di carcerati, la redazione al completo di ‘Astrolabio’, la rivista del carcere di Ferrara, una bella esperienza che va avanti da tredici anni, ancora troppo poco conosciuta in città.

Tutti gli altri – sono circa 400 gli ospiti della Casa Circondariale di Ferrara – sono ovviamente rimasti in cella: impossibilitati a partecipare all’incontro pubblico, assenti quindi, ma non del tutto: dalle finestre del casermone, le loro grida, i richiami, le mezze strofe di canzoni, ci avevano accompagnato mentre percorrevamo i cortili interni del carcere. Erano parecchi anni che non visitavo una galera – forse il sostantivo non è ‘politicamente corretto’ ma rende perfettamente la situazione – e vi assicuro che quelle voci lontane, ingabbiate dietro le sbarre e le grate, ti rimangono dentro. Non riesci neppure a capire cosa gridano – stanno chiamandosi tra loro o vogliono mandare un messaggio a te che sei libero? – ma restituiscono tutta intera la separatezza, il solco, la cesura tra liberi e reclusi. Da una parte il carcere, dall’altra Ferrara e i suoi ‘liberi’ cittadini.
Questa sera però, caso eccezionale e merito di chi ha voluto e organizzato questo evento, la città incontra il carcere. Per più di mezzora giriamo per i due locali dove sono allestite le piccole mostre di quadri e di fotografie in bianco e nero. Parlo con Cristiano Lega, un giovane fotografo napoletano trapiantato a Ferrara che ha condotto il laboratorio di fotografia e con alcuni dei suoi alunni detenuti. Gli faccio i miei complimenti, le foto sono belle, potenti, cariche di emozione. Spiega Cristiano: “E’ proprio sull’emozione che abbiano cercato di lavorare: dimenticare per un momento il carcere, scavare dentro di sé, buttare fuori le emozioni, e fermare queste emozioni in uno scatto o in un autoscatto”. E Paride, uno dei suoi alunni, mi racconta cosa ha significato per lui partecipare a quel laboratorio: “In vita mia non avevo mai preso in mano una macchina fotografica. Non avevo idea, all’inizio non ci credevo proprio. Ci portano in una stanza vuota, tutta bianca, che ci facciamo qui? E invece dopo un po’ mi sono mollato, mi sono lasciato andare, e mi sono anche tolto la maglietta e mostrato i miei tatuaggi. Io la chiamo la mia carta geografica. Alla fine, mentre posavo, o mentre scattavo una foto , era come se in quel momento non fossi più chiuso in carcere. Ci credi? Ero dentro una stanzetta tutta bianca ma mi sentivo libero. Potevo salire sul ring come un pugile, potevo mettermi a ballare…”. Le foto che corredano questo articolo mi pare diano ragione a Paride, ai suoi compagni di corso e al loro insegnante.

Foto di Giulia Presini. Clicca sulle immagini per ingrandirle

Sul muro di fronte alle fotografie, sono appesi i quadri a olio (con regolare cornice) prodotti nel laboratorio di pittura condotto da Raimondo Imbrò del Centro Sociale Quadrifoglio di Pontelagoscuro. Nei quadri, più dei soggetti, mi colpisce lo sguardo: sempre indirizzato dal dentro al fuori, dal chiuso all’aperto, oltre la finestra della cella: prati verdi, passeggiate in un viale alberato, barche sulla spiaggia, marine con faro o senza faro. E una grande mano aperta in primo piano, al polso una catena spezzata. La mano, finalmente, è libera.

L’incontro pubblico si svolge in una grande sala. Sul palco ci sono loro, i protagonisti: una decina di detenuti e componenti la redazione di ‘Astrolabio’ con il maestro Mauro Presini curatore e animatore della rivista, insieme ai partecipanti ai laboratori creativi. Non sono tutti sul palco; mostrarsi e parlare davanti a tante persone non è una cosa facile e alcuni di loro preferiscono stare tra il pubblico e ascoltare. Ma alla fine, vincendo l’imbarazzo e l’emozione, sono in tanti a parlare, a raccontarsi, a rispondere alle domande, a esprimere un’idea o un desiderio. Dopo il saluto del direttore della Casa Circondariale Paolo Malato e dell’Assessore Chiara Sapigni del Comune di Ferrara (da anni il Comune sostiene, economicamente e non solo, Astrolabio e altre attività dentro il carcere), dopo il breve intervento di Vito Martiello (inventore e direttore responsabile della rivista), sono i detenuti a prendersi la scena. I loro sono piccoli racconti di un riscatto, di un percorso di riabilitazione e cambiamento che, pur essendo ancora reclusi, è già iniziato. Grazie a iniziative come ‘Astrolabio’, i laboratori, il teatro, l’orto dentro e fuori le mura del carcere. Grazie all’impegno di tanti volontari ferraresi. Grazie alla disponibilità del direttore della Casa Circondariale e all’attenzione dell’Amministrazione Comunale. Il pubblico ascolta e fa domande. I detenuti (sotto ho voluto ricordare tutti i loro nomi di battesimo) rispondono. Si accende un dialogo concreto, non sui massimi sistemi, ma sulle necessità, le esigenze, i desideri di chi è privato della libertà ma chiede di non buttar via il tempo da passare in carcere.

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Qui, dentro questa sala disadorna della Casa Circondariale si respira un bel clima. Un clima ben diverso da quello che circola oggi in Italia. Mi viene in mente il Ministro dell’Interno che ricorda in tv e via Facebook che lui manterrà la promessa di… costruire altre carceri. O il dibattito in Parlamento dove la maggioranza nega alle madri detenute di stare assieme ai loro figli neonati. Ferrara, per fortuna, va “in direzione ostinata e contraria”. Tra la città e il suo carcere, tra la ‘città aperta’ e la ‘città dietro le sbarre’ c’è un ponte. A questo ponte, anche durante l’incontro, molti hanno dato nomi diversi: solidarietà, rispetto dei diritti umani, impegno verso il dettato della nostra Costituzione, voglia di libertà.

Usciamo fuori ed è già buio. Le luci delle finestre del carcere rimangono accese. Ritiriamo in guardiola i nostri documenti. Noi fuori. Loro dentro.

La redazione di Astrolabio: Mauro (caporedattore), Ben Harrat, Antonino, Marsel, Hassane, Paolo, Bruno, Michele, Francesco, Marco, Cesare, Alex.

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Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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