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In un contesto in cui la distribuzione del reddito è altamente disuguale l’opera di una politica consapevole dovrebbe tendere a riequilibrare il sistema. Uno dei metodi per farlo è sicuramente la progressività nella tassazione dei redditi cioè chi guadagna di più contribuisce in misura maggiore di chi guadagna di meno. La progressività della tassazione, del resto, è prevista dalla Costituzione del ’48 per cui il sistema era ben noto ed auspicato già dai nostri Padri Costituenti.

La tassazione è un’arma in mano allo Stato che dovrebbe essere usata per difendere gli interessi collettivi dei cittadini. Infatti con una modifica alle aliquote Irpef si può distribuire ricchezza (o un po’ di respiro) alle classi più basse senza impoverire (togliere troppo ossigeno) a quelle più alte. Questo non in chiave, ovviamente, punitiva ma semplicemente in chiave distributiva e in modo da evitare la creazione di oligopoli e l’accentramento di ricchezze tali da compromettere gli equilibri sociali. Inoltre, la tassazione serve per stabilire il principio che il controllo del sistema economico (e di conseguenza sociale) spetta solo allo Stato, che lo esercita per il bene comune e in difesa dei più deboli, di quelli cioè che da soli non potrebbero farcela contro attori economici troppo potenti né potrebbero competere con l’interesse privato dei grandi oligopoli.

Le tasse servono anche per regolare la quantità di moneta in circolazione, in tempi di deflazione si potrebbe ad esempio diminuire l’Iva per stimolare i consumi e, di converso, alzarla quando invece ci fosse un fenomeno inflazionistico in modo da togliere moneta dal circuito economico. Del resto una tassa che colpisce indistintamente i consumi senza fare nessuna distinzione tra milionari e pensionati al minimo (di fatto una flat tax) è quanto di più disuguale si possa immaginare e nelle mani colpevoli dei nostri politici sta diventando sempre più una vera mannaia sulle teste dei cittadini.
Ultima annotazione sul tema “a cosa servono le tasse”: poiché le tasse si pagano con la moneta in circolazione in un determinato Paese, tutti accettano di essere pagati soltanto in quella determinata moneta, ovvero, se siamo in Italia, non accetterò di essere pagato per il mio lavoro in “pizza di fango del Camerun” altrimenti non avrò euro per pagare l’Imu e il bollo dell’auto.

Concetti questi un po’ difficili da far passare in un Paese dove fin dalle elementari si studia che gli ospedali vengono costruiti con i soldi delle tasse dei cittadini, ma come arriviamo dalle tasse alla disuguaglianza? Attraverso la constatazione che si sta usando l’arma della tassazione per difendere gli interessi del capitale e non quelli della cittadinanza e questo fenomeno, benché non crei tutta la disuguaglianza in circolazione, la protegge e la sostiene. Le dà impulso.

La storia ci dice che nel 1974 c’erano ben 32 aliquote che andavano dal 10% al 72% poi dal 1983 iniziarono i cambiamenti e le aliquote da 32 passarono a 9, la prima aliquota sui redditi fino a 11 milioni di lire (5.681 euro) dal 10 passò al 18% e l’ultima sui redditi oltre 500 milioni (258.000 euro) passò al 65%.
Si arriva al 1989 e le aliquote si riducono a 7, la prima aliquota sui redditi fino a 6 milioni di lire (3.000 euro) ritornò al 10% e l’ultima sui redditi oltre 300 milioni di lire (155.000 euro) passò al 50% e, finalmente, ad oggi, dove le aliquote sono solo 5. La prima aliquota sui redditi minimi fino a 15.000 euro corrisponde al 23%, mentre l’ultima aliquota, la più alta, riguarda i redditi oltre i 75.000 euro e corrisponde al 43%.

Cosa è successo dunque? Semplicemente che dal 1974 le aliquote sono progressivamente andate a diminuire per i redditi alti e ad aumentare per i redditi bassi.

Insomma “abbiamo il debito pubblico alto” e dobbiamo fare i sacrifici, ma esattamente chi li deve fare? Nel 1974 chi guadagnava più o meno l’equivalente di 250.000 euro contribuiva per il 72% mentre oggi contribuisce per il 43% allo stesso modo di chi guadagna 75.000 euro che non è esattamente la stessa cosa, anzi un bell’aumento di ricchezza per la fascia già alta della popolazione.

I poveri invece sono passati dal 10% al 23% senza proteste particolari, sindacati in piazza, scioperi o contestazioni ma anzi con l’accettazione tipica dell’uomo moderno che preferisce dibattere per i nomi delle strade o l’abbattimento delle statue del periodo fascista, che vuol dire trattare la storia come i talebani e l’isis, solo che loro sono i cattivi.

Le aliquote Irpef, insomma, potrebbero essere una buona chiave per capire chi deve fare i sacrifici.

Io credo che le tasse non debbano essere né un furto né un ostacolo alla libera iniziativa e quindi che non dovrebbero mai superare un certo limite, ma sono anche consapevole di questa assenza generalizzata della politica che continua a dimostrare insofferenza alle prescrizioni delle norme costituzionali ed indifferenza alla giustizia sociale e che, inoltre, la proposta del partito della Lega Nord peggiori una situazione già pessima. Un partito che nonostante venga definito populista agisce in questo caso proprio contro il popolo quando propone il sistema di tassazione denominato flat tax, ovvero una sola aliquota fiscale buona per tutte le stagioni.

La flat tax metterebbe pace definitivamente a tutti i calcoli cancellando pezzi di costituzione e di giustizia sociale. Anche il ricorso alle previste deduzioni nel contesto di questa proposta darebbero sì un po’ di respiro alla maggior parte dei contribuenti ammassati verso il basso, dando persino a qualcuno la sensazione del miglioramento, ma sostanzialmente andrebbe a dare ulteriore potere economico (e quindi sociale) a chi avrebbe meno bisogno di tutela.
Non si considera una cosa semplicissima, che a un reddito di 24.000 euro all’anno con famiglia a carico, anche 100 euro al mese possono fare la differenza mentre per redditi da dirigente statale di 240.000 euro valgono un caffè al bar. E un top manager alla Marchionne può arrivare anche a 50 milioni all’anno. Ci sono delle differenze che non bisogna nascondere e la politica dovrebbe mediare fra i vari interessi in campo assicurando a tutti la giusta considerazione. Esiste il bisogno del pane, delle scarpe e della casa e il desidero di volare con aereo privato da Londra a Palermo che possono essere entrambi legittimi ma rimangono sempre bisogni o desideri.

Sono concetti diversi e vanno mediati con le esigenze di appartenenza al genere umano, di cittadinanza e di giustizia sociale. Se viviamo tutti sullo stesso pianeta abbiamo degli obblighi reciproci e nessuna parte ci guadagna a vedere l’altra soccombere, bisogna riconoscere l’interdipendenza degli uni con gli altri.

Proporre una flat tax assicura solo che qualche auto di lusso o aereo da crociera o yacht in più sarà venduto, un appiattimento (flat) sempre più marcato delle classi sociali in ricchi e poveri, un aiuto al fenomeno della disuguaglianza. Molto più “popolare” o “populista” sarebbe proporre un sistema di tassazione progressiva che tenga conto degli interessi in gioco e laddove viene evidente che il 72% è un furto ed un invito a delinquere sia anche evidente che non si può considerare alla stessa stregua un reddito di 28.000 euro con uno di 55.000 e uno da 75.000 con un altro di 240.000 e oltre.
Poi ovviamente si assicuri la certezza della pena per chi evade, si aiutino le aziende locali a prosperare difendendole anche con la fiscalità, oltre che con l’accesso al credito, dalle multinazionali, si consideri i prodotti nazionali come ricchezza e prospettiva di lavoro perché solo una buona domanda interna può dare impulso ad un reale miglioramento della situazione economica. Le esportazioni servono a pochi e dimostrano altrettanto poca progettualità e visione del futuro, così come pensare di lasciare più soldi ai ricchi con la speranza che questi li spendano investendo o comprando e aspettando che arrivi qualche briciola di pane ai pesci rossi significa aver fatto passare invano 200 anni di storia (e quindi Smith, Ricardo, Say, Marx, Keynes e poi Mussolini, Hitler, Bretton Woods e il muro di Berlino).

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Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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