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Per uno dei tanti legami nascosti che Francesco Arcangeli – insuperabile storico dell’arte del secolo scorso (ma sembra ieri) – amava intrecciare tra esperienze artistiche distanti nel tempo ma legate da un’unica memoria evocativa, le pagine finali della monografia su Bastianino (1963), germinano suggestioni e indicano accostamenti attraverso un dialogo ininterrotto tra le arti. Con coraggio critico e metodologico Arcangeli indica un filo rosso che unisce la forma dissolta e fluida del ferrarese Filippi (1530 ca – 1602), e la forma labile ed espansa di Medardo Rosso (Milano 1858 – 1928) scultore visionario protagonista tra Otto e Novecento del rinnovamento delle forme plastiche intese non più come superfici volumetriche chiuse, bensì elementi plastici lievitanti di moti interiori per via della luce che aggruma e sfalda l’immagine reale.
Il cuore della tesi arcangeliana sta proprio nel tramando concreto dello smateriarsi delle forme attraverso la luce di Bastianino e l’indefinitezza delle forme variabili, per sentimenti e stati d’animo di alcuni artisti dell’Ottocento italiano da Ranzoni a Piccio a Medardo Rosso. Scrive infatti Arcangeli: “Egli (Bastianino) è il capostipite della tradizione intralciata ma mai interrotta dei sognatori di Padania: quei romantici interrati, che pur non avendo una poetica precisa, avevano ancora un’intuizione e, nei giorni ispirati, riaggallano improvvisi alla lucida espressione dell’umano, in quel che ha di tremante, di ineffabile, di malato […] e accostando ancora l’occhio, quegli angeli stessi del gran ferrarese, distrutti dalla luce nella loro carne antica, possono appaiarsi, sentimento puro, all’Ecce puer del grande Medardo Rosso.”

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La locandina della mostra

Ricordavo questo brano di Arcangeli passeggiando per le sale rinnovate della Galleria d’arte moderna di Milano, dove è in corso l’esposizione “Medardo Rosso. La luce e la materia” curata da Laura Zatti, conservatrice della stessa galleria e organizzata e prodotta dalla Gam di Milano e da 24 Ore cultura (Gruppo 24 Ore). Complice l’illuminazione sapiente, i riflessi delle teche e degli specchi, ho colto immediatamente quanto le sculture di Rosso siano al limite del frammento in cui tuttavia si addensa la vitalità espressiva del tutto.
Torinese di nascita e milanese di scarsa formazione accademica (verrà espulso da Brera dopo un solo anno di frequentazione ), l’artista sviluppa fin dagli esordi (1882 – 83) una personale poetica veristica e sociale in sintonia con il movimento della Scapigliatura, realizzando “Il birichino”, “Il sagrestano”, “La ruffiana”, opere che introducono la mostra. Non c’è nulla di bozzettistico e di sentimentale nel fissare i personaggi presi dalla strada e dalla quotidianità più umile, nella forma sfaldata, nella plastica grumosità della materia (bronzo, gesso, cera), sulla quale la luce crea variazioni di toni e porta in superficie valori pittorici sfumati. Nella Portinaia – in mostra la variante in bronzo del museo di Budapest – ogni intento ritrattistico è ormai lontano dalla forma vibrante e incerta in cui Rosso, più che riprodurre il ritratto di una persona o un tipo sociale ferma l’impressione di un’immagine riproposta agli occhi e alla mente. Più evidente nella fusione a cera, l’immagine diventa una superficie vibrante senza terza dimensione. Lo stesso scultore riconobbe alla Portinaia un ruolo fondamentale nell’evoluzione della sua poetica tesa a cogliere i flussi emozionali. Dalla colata liquida, trasparente, affiorano la testa reclinata con la fronte girata in avanti verso la luce, le occhiaie profonde, il naso bitorzoluto, la bocca tumefatta appena segnata da fonde ditate d’ombra. Ecco cosa significava per Rosso “sorprendere la natura”, fissare la prima emozione, la prima impressione che si trasferisce dagli occhi alla mente prima ancora di essere contaminata dall’analisi descrittiva. Anche se Rosso sarà definito dalla critica francese il fondatore della scultura impressionista al Salon des Indipéndents in occasione dell’Esposizione universale di Parigi del 1889, cui partecipò con cinque bronzi “Gavroche”, “Aetas aurea”, “Carne altrui”, “El Looch”, “La Portinaia”, tuttavia il carico delle emozioni e il valore degli stati d’animo, elementi caratterizzanti della sua arte fin dagli esordi vanno aldilà della visione impressionista e rivelano la difficoltà di catalogare la libertà inventiva sempre ricercata con ostinazione dall’artista.

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Medardo Rosso, ‘La bambina ridente’, 1889

Nella “Bambina ridente” (1889, cera su gesso, Barzio, Museo Rosso), il confronto con la scultura del Rinascimento toscano (Desiderio da Settignano), si esprime nella maggiore precisione del modellato che indica un’altra tecnica sperimentale per raggiungere l’immediatezza della visione psicologica. Proprio come nelle due Rieuses della Gam di Milano (cera su gesso, 1903-1904) e del Museo Rodin di Parigi (bronzo,1894), immagini misteriose, ineffabili nel loro sorriso quasi leonardesco, eseguite nel periodo parigino insieme alla “Dama velata” (non presente in mostra), blocco di cera in liquefazione che scopre i tratti appena accennati di un’apparizione inafferrabile. Impressioni ed emozioni colpiscono l’occhio dell’artista al ritmo incalzante del susseguirsi delle immagini come in un trailer cinematografico: dall’inquietante figura della Ruffiana (1883) alla Grande Rieuse (1892) dal volto rugoso e sconvolto dalla risata angosciante, a metà tra maschera del teatro greco e strega, le forme in divenire perdono la loro stabilità e mutano col variare dei punti di vista.
L’incrocio con la Scapigliatura e gli Impressionisti e con la statuaria rinascimentale è consapevole: nella serie di ritratti di bambini in cera, terracotta, bronzo e gesso,il processo fenomenologico si coglie nell’istantanea di un sorriso o nella fragilità di un’espressione fino a raggiungere nell’Ecce puer (1906) una fusione indefinita con l’atmosfera. L’Ecce puer nelle sue varianti è “scultura liquida che cola anima ed emozioni” allo stesso modo delle ombre e delle astratte fosforescenze delle madonne e degli angeli di Bastianino nell’età estrema ed estenuata della Maniera.

Mostra “Medardo Rosso. La luce e la materia”, Milano, Galleria d’arte moderna, 18 febbraio- 31 maggio 2015. Visita il sito [vedi].

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Anna Maria Baraldi Fioravanti


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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