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La mostra “Piero della Francesca. Indagine su un mito” in corso a Forlì ai Musei di San Domenico fino al 26 giugno, si presenta come un evento molto ambizioso, come lasciano intendere gli stessi curatori. Un comitato scientifico di prima grandezza coordinato da Gianfranco Brunelli e presieduto da Antonio Paolucci – nel quale figurano tra gli altri: Daniele Benati, Giovanni Villa, Maria Cristina Bandera, Frank Dabbel , Guy Cogeval, Fernando Mazzocca, Paola Refica, Neville Rowley, Ulisse Tramonti, James Bradburne, Marco Antonio Bazzocchi, Luciano Cheles – ha permesso l’esito positivo di un’operazione molto complessa, ma che già aveva alle spalle gli attenti studi di Eugenio Battisti, per il quinto centenario della morte dell’artista (1992).
Il filo conduttore è costituito dal rapporto tra critica e arte, ricerca storiografica e produzione artistica, preso in esame nell’arco di cinque secoli: dalla fortuna di Piero della Francesca in vita (Sansepolcro 1412 circa-1492) fino all’oblio, alla riscoperta e alla consacrazione nel Novecento.
Le circa 250 opere esposte sui due piani del magnifico complesso museale di San Domenico mostrano il ruolo e la fortuna della cultura pierfrancescana a partire dalle opere di artisti contemporanei emiliani come Marco Zoppo, Lorenzo e Cristoforo da Lendinara, Bartolomeo Degli Erri, e ferraresi come Ercole De’ Roberti e Francesco Del Cossa. Il raggio d’influenza di Piero si allarga poi al soggiorno romano (1459) e a quello presso la Corte di Urbino (1465-1472/74), toccando le personalità di Melozzo, Perugino e Pinturicchio, mentre il riflesso della sua attività a Sansepolcro e ad Arezzo (Polittico della Madonna della Misericordia, Leggenda della vera Croce nel coro di San Francesco ad Arezzo, Madonna di Senigallia, Sacra Conversazione oggi a Brera) si legge chiaramente nelle opere di Luca Signorelli e in quelle dei veneti Antonello da Messina e Giovanni Bellini.
Dopo secoli di silenzio, è nell’arte contemporanea che si fa evidente la fortuna moderna di Piero, potendosi comparare in mostra la riscoperta dei valori figurativi tipici dell’artista polarizzati nella formula spazio-colore-luce nella pittura dei Macchiaioli, nel Realismo magico e nella Metafisica fino a Morandi. Si deve a Roberto Longhi (1929) l’aver evidenziato la statura della figura di Piero che, dopo una breve nota di Vasari, per troppo tempo era rimasta in ombra e da quel momento non vi è stato grande artista che non abbia voluto relazionarsi con lui.
Questa vastissima selezione di opere, che sfiora la produzione di Carrà, Funi, Casorati, Campigli, Capogrossi, fino a Balthus e a Eward Hopper, ha il suo punto di forza nel confronto tra la Madonna della Misericordia (1445 – 1455), proveniente dal Museo Civico di Sansepolcro e la grande tela di Felice Casorati con il ritratto di Silvana Cenni (1922 – Torino, Collezione privata).
Vera e propria icona per intere generazioni di artisti tra Ottocento e Novecento, la Madonna della Misericordia, che costituiva in origine lo scomparto centrale di un vasto polittico destinato alla Chiesa della Confraternita omonima di Sansepolcro, rappresenta la Vergine Maria in piedi che apre il proprio mantello per dare protezione ai personaggi che la venerano. L’iconografia deriva dalla consuetudine medioevale della ‘protezione del mantello’ che le nobildonne altolocate potevano concedere a perseguitati o bisognosi di aiuto. I fedeli sono gerarchicamente più piccoli e sono disposti a semicerchio (quattro per parte, con uomini a sinistra e donne a destra), lasciando un ideale posto vuoto al centro per l’osservatore. Tra di essi si vede un confratello incappucciato, un ricco notabile vestito di rosso e un uomo voltato verso lo spettatore ritenuto un autoritratto del pittore.
La straordinaria impressione di compattezza emergente nella figura statuaria della Madonna è dovuta allo schema prospettico e al senso volumetrico della sua imponente monumentalità che la trasforma in uno spazio abitabile, in una vera architettura di misericordia. Eliminati dall’immagine ogni retorico patetismo e drammaticità, attraverso il ricorso a forme geometriche pure, che costruiscono l’ovale vitruviano del volto imperturbabile, Piero applica le teorie prospettiche e proporzionali da lui teorizzate (prospectiva pingendi) per stabilire l’esatta modulazione di ogni parte del corpo, dalla testa alla larghezza degli occhi, all’altezza del naso, mentre il velo che si ripiega sulla fronte (come nelle cortigiane della Storia della Croce ad Arezzo), è un espediente per sottolineare l’ovale sferico della fronte e il cilindro perfetto del collo.
Il senso volumetrico non è il solo a fare della Madonna della Misericordia un’icona: concorre anche l’oro dello sfondo, trasformato in fonte di luce, che costruisce lo spazio secondo volumi precisi e proporzionali. L’assenza di ogni elemento architettonico dimostra che già a queste date precoci, per l’artista, la figura umana è “rivelazione dell’identità assoluta di spazio geometrico e luce” (Argan). Inoltre all’unità ritmica dell’insieme si associa un calcolato uso del colore impostato su più tonalità di rosso, di azzurri e di tinte scure, per lo più di grigi e ocra, come nell’interno del mantello. La materia cromatica, pastosa, intrisa di ombre e di luci si espande verso il basso con l’allargarsi delle vesti fino a confondersi con il finto marmo scuro della pedana. Anche i rossi e azzurri degli abiti dei fedeli inginocchiati condividono l’unità ritmica dell’insieme nelle falde verticali delle vesti della Madonna e negli “obliqui spioventi del mantello che il gesto delle rigide braccia trasforma nell’invalicabile confine di un altro mondo” (Eugenio Battisti).
Di fronte alla possente Madonna misericordiosa di Piero ricordo le mie personali suggestioni in occasione di una visita a Torino nella casa di Francesco Casorati, figlio del grande Felice. In occasione della sesta edizione della Biennale Donna (1994) stavo curando una sezione dedicata al panorama artistico femminile della prima metà del Novecento e avevo focalizzato la mia attenzione sul gruppo di giovani artiste che a Torino erano maturate nel cenacolo casoratiano (1920-1930) : dalla moglie Daphne Maugham Casorati a Nella Marchesini, da Lalla Romano a Paola Levi Montalcini. Ricordo che in questo incontro ignorai ostinatamente l’attività artistica del figlio Francesco, mentre imperterrita chiedevo notizie sulla madre, sul famoso maestro e sulla collezione di dipinti della Secessione romana che coprivano le pareti della sala da pranzo. Quando, tuttavia, il mio gentile ospite mi aprì una stanza completamente bianca, quasi metafisica, rimasi senza parole. “Giuliana Cenni” era al centro della stanza sopra una specie di altare che accentuava la sua verticalità. Sapevo che quell’idolo silenzioso e ieratico viveva nella dimora torinese di Felice Casorati, ma che mi apparisse come un personaggio pirandelliano, dal nulla, non lo immaginavo.
Silvana Cenni (presente in mostra a Forlì) è il capolavoro di Felice Casorati, è un’icona della storia dell’arte del Novecento che coglie a piene mani la rivoluzione rinascimentale prospettica di Piero della Francesca. La giovane donna è vista di fronte, seduta con le braccia spinte indietro a poggiare i gomiti sul tavolo dal quale le mani ricadono inerti. Sul fondo la finestra aperta lascia intravedere il colle e l’architettura della chiesa del Monte dei Cappuccini di Torino. Lo sviluppo verticale del dipinto sottolinea l’eleganza dell’immagine. Gli oggetti sparsi in primo piano: i libri antichi, i cartigli, i rotoli di carta sono volumi geometrici che interrompono la monotonia del pavimento e danno risalto alla tunica bianca inamidata che ‘incarta’ l’esile corpo e allo scialle fiorito lasciato scivolare sul tavolo. Le luci, che provengono da due fonti, si fondono nella stanza provocando una vibrazione empatica: “torniscono il cilindro esatto del collo e l’ovoide liscio della testa della donna, mettono in rilievo la loro immota solidità in contrasto con l’arricciatura della veste, irrequieta e frizzante come una risacca sul giro del collo” (L. Carluccio).
“Silvana Cenni” è una sorta di pietra di paragone per le interpretazioni della critica del Novecento dell’atteggiamento di Casorati verso il suo universo dipinto, e il riferimento dell’ovale del volto con gli occhi bassi alla Madonna del Polittico della Misericordia è quasi scontato. Ma la suggestione dell’opera di Piero diventa totalizzante se solo si confronta il gesto borghese di controllato abbandono con l’apertura delle braccia e la posizione delle mani della Vergine, mentre gli oggetti ai piedi di Silvana Cenni si dispongono a semicerchio come gli oranti inginocchiati e perfino la centina del fondo oro si ridisegna nel profilo della collina oltre il telaio della finestra. Il più quattrocentesco dei ritratti di Casorati è nell’ordito geometrico dello spazio progettato prospetticamente e nella simmetria, e costituisce un omaggio alla Pittura come codice costruttivo razionale.
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Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.
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Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani. Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito. Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.
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Francesco Monini
[1] La storia del giornale è piuttosto lunga. Il primo quotidiano della storia uscì a Lipsia, grande centro culturale e commerciale della Germania, nel 1660, con il titolo Leipziger Zeitung e il sottotitolo: Notizie fresche degli affari, della guerra e del mondo. Da allora ha cambiato molte facce, ha aggiunto pagine, foto, colori, infine è asceso al cielo del web. In quasi 363 anni di storia non sono mancate novità ed esperimenti, ma senza esagerare, perché “un quotidiano si occupa di notizie, non può confondersi con la letteratura”.
[2] Non ci dimentichiamo di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno il giornale si confeziona. Così Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto.
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