LA NOTA
“Fra i crinali e non fra le cime”.
Lezioni di vita in Val di Ledro
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Ho sempre cercato nella mia vita la libertà che dà la montagna, non quella dei turisti e del turismo, ma quella vera. Credo di montagna di averne percorsa tanta, non certo tutta, ci mancherebbe, dalle altezze della Val d’Aosta al Bernina, fino allo stupore incantato della Val Venosta, dell’Ortles e del Cevedale. La montagna non perdona e so per esperienza, per compagni di cordata che ora non ci sono più, di aver portato a casa la pellaccia, per la sua benevolenza o per mia fortuna.
Arriva un momento che il tuo rapporto con le montagne si fa memoria, si fa ricordo, è il momento della distanza, per non farti logorare dalla passione. Ma la montagna non la puoi tradire, anche se devi imparare a prenderne le distanze. Per questo ho trovato nella Val di Ledro il luogo ideale. Il luogo per far pace tra me e la montagna, per porre termine alla sfida e lasciarmi accarezzare dalla natura che qui è soprattutto verde di boschi inesauribili che mirano la loro immagine nello specchio del lago.
Dove inizia e dove finisce la montagna? Con gli occhi sempre rivolti in alto alle cime dolomitiche accade poi che solo ciò che ti sfida all’arrampicata, alla cordata, ai ramponi e alla piccozza sia degno di chiamarsi montagna. Eppure imparare la bellezza della montagna è un’altra cosa. È camminarla, esplorarla, ascoltarla, riconoscerla, apprezzarne le appartenenze più umili delle cime blasonate.
Io l’ho appreso qui in val di Ledro, arrampicata tra il Garda e le pendici delle Dolomiti, dall’Adamello al Brenta. La prima volta che ci sono venuto, da Riva, per raggiungerla, c’era solo l’antica Gardesana Ponale con le sue curve a picco sul lago e la valle, che in due auto non ci si stava, ora la strada è solo per mountain bike che della val di Ledro hanno fatto una meta ideale.
Ma la Gardesana Ponale era un anticipo dei crinali, dei fianchi delle Alpi di Ledro. Perché qui ho imparato ad andare per crinali anziché per cime, che è una lezione di vita. Ad apprezzare gli scenari di verde e di rocce che scendono dalle altezze alla distesa mediterranea del lago.
Di imparentare il Mediterraneo alle Dolomiti m’era mai capitato, non m’era mai capitato di unire distanze così distanti, lo devo alla val di Ledro che mi ha insegnato una cultura, una filosofia.
La cultura dei passaggi dai limoni del Garda alla flora montana, al cinghiale e all’orso. Di qui è passato il Garibaldi di Bezzecca, la linea di trincee austroungariche della prima guerra mondiale, le popolazioni di qui sono state condannate all’esodo in Boemia. Luogo di valichi già ai tempi dei romani per eserciti, viaggiatori e contadini. Non la barriera invalicabile dei massicci dolomitici, le montagne di Ledro sono tramite, sono passaggio, sono ponte. Qui ancora c’è in alto Malga Trat, dal latino traho, passo, valico, transito. È l’antica storia della valle tra Trentino e Lombardia, tra Italia e Austria.
La lezione di passaggio che dà questa valle di silenzi con una bocca a Riva e l’altra a Storo è che migranti o no il nostro esodo è continuo e la sosta solo apparente. È che gli esodi non sono tutti uguali, ma questo non è sufficiente da renderli un’altra cosa.
La Valle di Ledro è come la musica che ti porta a conoscere dimensioni prima inesplorate, forse è per questo che dai musicisti è sempre stata amata. Pare che nel suo silenzio la musica ci abiti da sempre, portata dai profumi, dai colori dei biotopi unici, dal vento che si incontra con il sole sulla marea dei laghi, quello del Garda e quello delle palafitte di Molina, quello che muove i drappeggi degli altipiani, dei pascoli dalla flora rara. Da Arrigo Boito che qui compose il libretto del suo Nerone, fino al ferrarese Luciano Chailly, ledrense d’adozione, tra l’altro armonizzatore di canzoni alpine, che il coro di qui, il Cima d’Oro, ha nel suo repertorio. E ancora Angelo Foletto storico e critico musicale d’eccezione che ogni estate qui confeziona i prestigiosi concerti Kawai.
Potrei dire che la Valle di Ledro è come lo gnocco boemo che nel suo cuore conserva il segreto del suo sapore. È l’animo dei ledrensi che, dalla tragedia dell’esodo in Boemia durante la Grande Guerra, al loro rientro hanno portato con sé il segreto di questa delizia, povera, perché di pane, prugna, burro fuso, zucchero e cannella, ma dal sapore sorprendente come la loro valle.
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di Piermaria Romani
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