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In direzione ovest

Il piccolo Mario è un bambino vivace, intelligente, e, a detta di molti un po’ impertinente, ma non perché sia maleducato, anzi, è molto educato, solamente perché è molto curioso e guarda il mondo come se volesse scrutarne i segreti e scoprire la sua evoluzione.

Al contrario di molti suoi coetanei, ama leggere ed approfondire ciò che legge, al punto che  Paolo ed Emilia, che sono i suoi genitori, temono che il figlio possa avere una sorta di malattia mentale.
Mario, vive, con mamma, papà ed i nonni materni, in una piccola casa nella periferia di una grande città, di quelle metropoli in cui si è completamente persa ogni dimensione umana, in cui tutto sembra funzionare come dentro una macchina, ma in cui, anche solo un saluto, un sorriso, sembra appartenere a mondi antichi, mondi in cui la convivenza e la condivisione erano attività quotidiane.

Paolo è dipendente di una società informatica che sforna, quotidianamente, nuovi algoritmi di intelligenza artificiale, figlia di quel progresso che ha disumanizzato la convivenza civile, dando a tutti l’illusione di una vita migliore, proprio come se, ormai, gli esseri umani dovessero trasfigurarsi in automi, capaci solo di produrre ricchezza ai pochi che sono al potere.
Emilia, invece, decise, all’indomani della nascita di Mario, di occuparsi della casa, in sostanza di fare un mestiere antico, ma quasi dimenticato, ovverosia la casalinga, cura il benessere dei famigliari e si occupa di un piccolo orticello, posto dietro casa, dove produce ortaggi naturali e non quelle schifezze sintetiche che si trovano nei supermercati del metaverso.

Mario ama ascoltare le storie dei nonni materni che, ormai ultra novantenni, ricordano i tempi in cui vivevano in  una ridente cittadina di medie dimensioni.

Giuseppe, il nonno di Mario, stimolato dalla curiosità del bambino, si perde a raccontare di come, nelle città ci fossero enormi parchi, con alberi antichi e sotto i quali le persone amavano rinfrescarsi dalle calure afose dell’estate, racconta di come i bambini si divertissero a correre tra l’erba fresca di quei parchi, ricorda, con un lieve tremore di emozione, di quando i lavori erano si, faticosi, ma stimolanti e di quando, finalmente, durante quelle che si chiamavano ferie, le persone correvano al mare o in montagna, per rigenerarsi prima del ritorno al lavoro.

Questi racconti piacevano moltissimo a Mario, anche se non comprendeva del tutto le parole dell’anziano nonno, non capiva cosa fosse l’erba, non riusciva ad immaginare gli alberi, e non poteva comprendere i colori cangianti del mare, perché, se solo avesse alzato lo sguardo verso la realtà, chiudendo l’immaginazione dei racconti, avrebbe visto un panorama polveroso, dove le tonalità dominanti non erano i colori di un tempo, ma qualcosa che variava dal grigio al colore della sabbia.
Era affascinato dal racconto del rosseggiare dei tramonti e dall’ irideo arcobaleno che accompagnava la fine dei temporali, riusciva, persino, con l’innata fantasia che lo accompagnava, ad immaginare come fossero stati quei rinfrescanti temporali estivi.

Fu, però, un giorno, verso sera, quando si spengono le luci della ricca e moderna metropoli, che il nonno, accompagnato da un velo di tristezza e da una voce che tremava di malinconia, gli raccontò di quando quella sorta di Eden  fu martoriata dalla stessa sete di denaro di noi umani, di quando, non ascoltando gli scienziati, che lanciavano allarmi sul clima impazzito, quasi d’improvviso, quei temporali così graditi e rinfrescanti, si fecero sempre più potenti e distruttivi, di come, lentamente, ma inesorabilmente, distruggevano cose e seminavano terrore e morte, sino a quando, scienziati e tecnici non trovarono il modo per sfuggire a questo inevitabile destino.

Fu in quel momento che Giuseppe corse in cantina a  prendere un’oggetto misterioso, un vecchio ed impolverato cannocchiale, e indicò a Mario di guardare il cielo in direzione ovest:  “Vedi Mario” disse il nonno, “ quel puntino lassù in alto…, quello è il luogo da dove veniamo noi, quella è la Terra”.

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Stefano Peverin

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