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Dov’è finito il patrimonio dell’ex Pci, transitato nel 1991 nel Pds poi ereditato nel 1998 dai Ds ma mai conferito al Pd? La storia non è nuova, ma non sono in molti a conoscerla. Quel patrimonio, fatto essenzialmente di immobili, dall’autunno del 2007 è custodito da una rete di fondazioni private. Quella provinciale, che gestisce le ex case del popolo, i magazzini e gli stabili che un tempo furono del Partito comunista ferrarese e poi dei suoi eredi diretti, si chiama “L’approdo”. A governarla è un comitato di indirizzo, composto da cinque membri nominati a vita e presieduto da Secondo Cusinatti, storico dirigente del Pci copparese. Ne fanno parte Severino Franco, Riccardo Baricordi, Alberto Bovinelli e Daniele Zoli. C’è poi il consiglio di amministrazione, di cui fanno parte cinque persone: il presidente Bracciano Lodi e i consiglieri Maurizio Aguiari, Daniele Ravagnani, Alessandro Tedaldi e lo stesso Cusinatti. Poi ecco il collegio dei (tre) revisori dei conti. Tredici persone in tutto. Lo statuto prevede anche un comitato scientifico con relativo direttore generale ma di questi sino a oggi si è fatto a meno.
“Nessuno di noi percepisce un euro”, si affretta a chiarire Cusinatti, e fa bene a mettere le mani avanti perché di questi tempi il sospetto è legittimo. “Nemmeno i rimborsi spesa – aggiunge – se vado a Bologna mi pago la benzina”. Nessun gettone da 900 euro per la trasferta? Se la ride, ma non si sa quanto di gusto. Per uno che in certi valori crede davvero quel che sta accadendo non è facile da mandare giù.

Ma di cosa stiamo parlando in soldoni? Grossomodo di sei milioni di euro, il valore di una trentina di immobili proprietà dei Ds che non sono finiti nei forzieri del Pd, oltre a circa 170mila euro di rendita annua che deriva dal loro affitto. Cifre approssimate, ricavate dal presidente che al momento del nostro colloquio non ha sottomano i bilanci (“ma sono controllati, c’è la massima trasparenza”, afferma) e per soddisfare la nostra insistenza ci rimanda al sito della Regione dove – sostiene – sono pubblicati. Ma dalla Regione, dopo vane ricerche in rete e un lungo giro di contatti, apprendiamo che in realtà i bilanci delle fondazioni non sono online e per poterli consultare i tempi non sono brevi. C’è il solito iter… Così, sollecitato di nuovo, Cusinatti l’indomani ci richiama e dice di avere ritrovato un appunto al margine di una relazione e snocciola questi numeri. Altro non c’è, perché – spiega – la liquidità di cassa, a Ferrara come in tutta Italia, fu devoluta al nuovo partito ai tempi della fusione, sei anni fa. In ogni caso non è poco. Sei milioni di roba e 170mila euro di rendita annua sono un bel gruzzolo, benché un provento del 3 percento su un simile patrimonio non sia proprio da lustrarsi gli occhi.

A questo punto subentrano gli interrogativi. Il primo è capitale. Perché nel 2007, pur devolvendo la cassa, ci si tenne “l’argenteria”? Diffidenza reciproca, sostanzialmente – afferma in una sua recente memoria Giorgio Bottoni, allora tesoriere dei Ds, che non condivise però la soluzione delle fondazioni e non entrò a farne parte -. L’interpretazione appare convincente. D’altronde quello fra Democratici di sinistra e Margherita fu un matrimonio innaturale. Le due formazioni politiche ereditavano la tradizione di Pci e Dc, eterni rivali. Mettersi insieme, pur in un contesto storico radicalmente mutato, era una scommessa e per qualcuno forse un azzardo. Tanti non aderirono, non riconoscendosi nell’identità del nuovo soggetto. E coloro che comunque decisero di andare avanti lo fecero con riserva tutelandosi nel caso che… L’idea era che qualora il matrimonio fosse fallito ciascuno (mettendo preventivamente da parte i propri averi) poteva sempre tornare a casa propria. Sotto questa luce l’operazione appariva come un temporaneo accantonamento, in attesa che si dissipassero i dubbi sulla possibilità di convivere nel nuovo partito. In maniera analoga si regolò anche la Margherita.

Cusinatti però non la vede così. “Il problema era un altro: i partiti da sempre sono mangiasoldi. Quei beni sarebbero spariti in fretta. La volontà delle fondazioni nate a livello nazionale e messe in rete fra loro era quella di mantenere il patrimonio frutto del lavoro dei compagni delle feste dell’Unità, delle autotassazioni, delle sovvenzioni…. Dietro la facciata delle parole emerge però un retropensiero che l’interlocutore non esplicita ma lascia intendere: quello che il Pd non rappresentasse coerentemente il patrimonio ideale dei Ds, cioè della sinistra. E che quel patrimonio andasse preservato dalla deriva ideologica.
A questo punto però lo scenario si complica e divergenti appaiono le implicazioni.
Se il problema sono “i partiti mangiasoldi” – come dice Cusinatti – c’è da chiedersi sulla base di quale autorità morale fondazioni private, per sottrarre il patrimonio alla voragine, si siano di fatto impadronite di una ricchezza che era pur sempre maturata nell’alveo di una formazione politica, dunque collettiva.
Se di operazione di pura cautela si trattava – come invece pensava il tesoriere Bottoni – beh probabilmente dopo sei anni di sposalizio la reciproca diffidenza si potrebbe considerare superata e nulla più osterebbe al conferimento del patrimonio al suo legittimo erede, il Pd.
Ammenoché non prevalga la terza, implicita, riserva: quella politica. Il Pd è indegno erede e quindi tutto resta congelato in attesa della fine del mondo e di una palingenesi: la rinascita dalle ceneri di un erede finalmente degno. Uno scenario apocalittico, ma in fondo neppure troppo remoto visti i continui dissidi interni ai Democratici. Che però sono abbastanza trasversali alle vecchie appartenenze e quindi potrebbero un domani, qualora pure si giungesse a una scissione, non approdare alla formazione di un soggetto in grado di soddisfare la purezza di pedigree attesa dai depositari degli antichi ideali.

Tornando ai fatti, la realtà ferrarese parla, come anticipato, di sei milioni di patrimonio immobiliare (metà dei quali ascrivibili al centro feste di Vigarano). Cosa dovrebbe fare L’Approdo di questo bendidio? “Metterlo a disposizione della collettività”, afferma in maniera vaga Cusinatti. Per cosa concretamente? L’imperativo che viene esplicitato è “diffondere la conoscenza della storia e della cultura della sinistra”. Ottimo. Ma in concreto cosa è stato fatto? Gli anni sono già sei ma nel sito ufficiale (www.fondazionelapprodo.it) l’unica cosa segnalata alla voce “attività” è la pubblicazione del volume “E l’Unità faceva festa” a firma Sara Accorsi, realizzato e stampato in trentamila copia nel 2010 da Cirelli e Zanirato, al costo (precisa il presidente del comitato di indirizzo) di 30mila euro, “in vendita – è scritto nel sito – in tutte le migliori librerie al costo di soli 21 euro”.
Già questo lascia perplessi: in vendita, dunque. Ma – chiediamo a Cusinatti – non dovreste divulgare, mettere a disposizione? “Sì, infatti li abbiamo poi regalati, a parte un centinaio. Adesso stiamo vedendo cosa fare delle rimanenze. Quante? Un migliaio. Andranno ai circoli di partito e alle biblioteche”.
Va bé… E a parte il libro? “Beh stiamo sistemando i locali di piazzetta Righi, da viale Krasnodar trasferiremo lì la sede, stiamo anche attrezzando un archivio…”. Questo è l’oggi – puntualizziamo – ma in passato? “Ci siamo preoccupati della manutenzione degli immobili, della loro messa a norma…”. Già, ma che c’entra con la divulgazione dei valori della sinistra? “Abbiamo pubblicato un libro di Gaetano Marani e contribuito alla scuola di formazione del Pd”. E “tutto” questo fervore culturale quanto vi costa ogni anno? “Dai 15 ai 25mila euro”, sostiene l’interlocutore. Che aggiunge: “Abbiamo anche concorso con le fondazioni di tutta Italia alla realizzazione della mostra itinerante sul Pci”.

Onestamente ci pare poco. Da quanto ci viene riferito la fondazione sembra avere quale scopo primario quello di sopravvivere. Si fa manutenzione, appunto, ma manca la progettualità. Addentrandoci nelle scarne cifre di bilancio, guidati dal presidente Cusinatti e dai suoi appunti, scopriamo che nel 2012 dei 147mila euro di uscite circa la metà sono andati a copertura dei mutui che gravano su alcuni degli immobili, 20mila per opere di messa a norma, 11mila per il personale di segreteria e il rimanente in spese assicurative, tasse e tributi vari. Alle iniziative culturali sono finite solo le briciole. Eppure il bilancio si è chiuso con un attivo di 23mila euro. Dunque se si fa poco a livello di iniziative il motivo c’è: si spende poco o nulla. Ma lo scopo della fondazione, ribadiamo, non è galleggiare, bensì promuovere e diffondere la conoscenza dei valori della sinistra. E allora? Mancheranno mica le idee?
Già che ci siamo ne buttiamo lì una. Perché non vendere una parte cospicua del patrimonio e col ricavato creare, per esempio, un grande centro culturale multimediale che davvero dia impulso alla ricerca sui temi propri della sinistra, oltre che coltivarne la memoria? Cusinatti replica che non si può fare, poi si corregge e dice che sì, si potrebbe, ma è un’idea troppo ambiziosa, “mica siamo a Roma”.

Allora si torna al quesito iniziale. Una fondazione così ripiegata in se stessa a cosa serve? Ne comprenderemmo la ratio se la funzione (come sostiene Bottoni in una lettera scritta alla Nuova Ferrara nella primavera scorsa) fosse quella di cassa di sicurezza, in caso di divorzio nel Pd. A questa condizione la gestione meramente conservativa avrebbe un senso. Ma se la fondazione deve essere un motore di conoscenza, come viceversa reputa Cusinatti, non può semplicemente svivacchiare, tirare avanti ridipingendo le pareti di casa e togliendo la muffa. “Senza le fondazioni metà del patrimonio già oggi non ci sarebbe più”, ribadisce tosto il presidente. E io provoco: quindi la vostra è solo una funzione di tutela, un rifugio dagli spendaccioni di partito? “Da una cultura sbagliata che c’era anche dentro i partiti di sinistra”, chiarisce l’interlocutore. E si affretta a precisare (con un paradosso che dissipa possibili malevole interpretazioni): “Voler spedire quell’unica copia dell’Unità in Valle d’Aosta costava 500 euro, non era economicamente conveniente…”.

Bene, ma oggi che l’Unità non c’è più (per stare alla metafora) e siamo a fine anno, cosa si propone di fare L’Approdo per il 2014? Al dubbio che ci assale chiediamo soluzione a chi ha potere di decidere. “Ad aprile ci troveremo per stilare il bilancio consuntivo e approvare quello preventivo”. Ad aprile? Siamo a dicembre! E poi che c’entra il bilancio, stiamo parlando di programmi, di attività, progetti, non di contabilità… “Sistemeremo la nuova sede, l’archivio, ci sarà una saletta con 40/50 posti”. E per farne cosa? Chi siederà su quelle sedie? I dubbi persistono.

E poi c’è il problema delle cariche a vita. Sempre Giorgio Bottoni scrive che di questi compagni ci si può fidare (“sono brave persone, oneste, disinteressante”), ma domanda: una volta che non ci siano più loro che succede? Lo statuto prevede che se uno degli attuali componenti per qualsiasi motivo viene a mancare si sceglie un sostituito per cooptazione. Pratiche da “ancien regime” che credevamo superate. “Già – sorride – Cusinatti – però almeno noi siamo tutti gratis”, lasciando intendere che la carica è, in tutti i sensi, più un peso che un godimento.

Ci salutiamo e a me resta una convinzione. Se questi signori sono garanti di un patrimonio collettivo, come il presidente stesso ammette, non è giusto che decidano tutto da soli. Non sarebbe stato meglio, nel 2007, coinvolgere la totalità degli iscritti ai Ds di quell’anno come se fossero i soci di un azionariato diffuso, definire una forma associativa condivisa fra tutti i militanti e posta sotto il loro controllo assembleare anziché privatizzare la gestione? Non sarebbe stato più giusto, più “di sinistra”? “La scelta è stata nazionale, si è deciso così”, chiosa Cusinatti.

Mentre ci allontaniamo, ad accompagnarci è l’altro rovello: che senso ha mantenere in vita la fondazione in una condizione di sostanziale inerzia?
Se lo scopo era semplicemente quello di preservare il patrimonio nel caso di rottura nel Pd, ha ragione Bottoni quando dice che ora è tempo che quei soldi vadano al Partito democratico. Se invece, come ritiene Cusinatti, il Pd non rappresenta i valori della sinistra, e quindi la fondazione ha il dovere di sviluppare una propria autonomia azione per sostenere e diffondere quei valori, è tempo di rimboccarsi le maniche: in sei anni due libri, qualche contributo all’Istituto di storia contemporanea e il sostegno alla scuola di partito (del Pd peraltro, che in quest’ottica risulta un paradosso, ammenoché non si pensi di indottrinarne i dirigenti!) sono il nulla. Insomma, in qualsiasi caso, così non va.

1 – CONTINUA

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Sergio Gessi

Sergio Gessi (direttore responsabile), tentato dalla carriera in magistratura, ha optato per giornalismo e insegnamento (ora Etica della comunicazione a Unife): spara comunque giudizi, ma non sentenzia… A 7 anni già si industriava con la sua Olivetti, da allora non ha più smesso. Professionista dal ’93, ha scritto e diretto troppo: forse ha stancato, ma non è stanco! Ha fondato Ferraraitalia e Siti, quotidiano online dell’Associazione beni italiani patrimonio mondiale Unesco. Con incipiente senile nostalgia ricorda, fra gli altri, Ferrara & Ferrara, lo Spallino, Cambiare, l’Unità, il manifesto, Avvenimenti, la Nuova Venezia, la Cronaca di Verona, Portici, Econerre, Italia 7, Gambero Rosso, Luci della città e tutti i compagni di strada

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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