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“Il sistema collasserà se ci rifiutiamo di comprare quello che ci vogliono vendere, le loro idee, la loro versione della storia, le loro guerre, le loro armi, la loro nozione di inevitabilità. Ricordatevi di questo: noi siamo molti e loro sono in pochi. Hanno bisogno di noi più di quanto ne abbiamo noi di loro. Un altro mondo, non solo è possibile, ma sta arrivando. Nelle giornate calme lo sento respirare.”

Arundhati Roy

 

Per qualche ragione, a partire da questa frase che me l’ha evocata, ho iniziato a farmi domande sull’importanza della moltitudine, intesa come massa, intesa come popolo. Nella mia attività, in piccolo, come nella storia delle vicende umane, in grande.

Per cominciare: il fatto che mi sforzi di andare per approssimazioni successive, cercando di mostrare con scarso successo quello che realmente ho nella testa, non depone a mio favore. Sono tutti e tre vocaboli generici. La massa o “le masse” in politica è concetto soprattutto marxiano, che poi viene collegato alla coscienza di classe per indicare il passaggio da una moltitudine ignara di sè ad un gruppo conscio del proprio comune interesse. Popolo è un concetto comunque lato e dalle svariate accezioni: potrebbe significare la popolazione indistinta di un certo territorio, anche se la filosofia politica divenuta poi retorica terzinternazionalista lo ha fatto diventare sinonimo di “popolo oppresso” oppure di “proletariato”.

“Moltitudine” in teoria è ancora più vago. Di per sè indica un concetto puramente aritmetico: tanti invece di pochi. Eppure alla fine trovo che sia il meno sfuocato, se non altro per il fine che mi prefiggo mentalmente, e che un po’ ritrovo nella frase di Arundhati Roy: quello di dimostrare la potenzialità dei tanti contro i pochi. Parlo di potenzialità, e non di potenza, perchè trovo frequenti dimostrazioni del fatto che tale potenza rimanga inespressa, e quindi resti nell’alveo della potenzialità: qualcosa che potrebbe essere, ma non è.

Giusto per partire da un’eccezione che conferma la regola, cito la vicenda GKN, fabbrica di Campi Bisenzio. La capogruppo decide di delocalizzare, licenzia 185 operai, che non ci stanno e impugnano il provvedimento e nel frattempo occupano la fabbrica in presidio permanente. Alla fine dell’anno, proprio mentre sta per scattare l’operatività dei licenziamenti, il giudice del lavoro su ricorso della Fiom CGIL dichiara che sono illegittimi e li annulla. La guerra non è finita, ma una battaglia è stata vinta. Questo è un esempio di moltitudine che si fa classe, saldata da un evento estremo quale la perdita del lavoro.

La domanda che mi faccio spesso è: possibile che debba accadere un evento estremo per saldare una moltitudine? Possibile che le persone debbano trovarsi spalle al muro per capire che si devono mettere insieme e lottare insieme?

Non mi pare una domanda retorica. Il fatto che in circostanze tragiche – una guerra, un’invasione, una calamità, un sopruso che ti cambia la vita – molte persone si alleino per combattere dalla stessa parte significa appunto che, per converso, in altre circostanze, meno tragiche ma molto più quotidiane, in cui il sopruso e la disuguaglianza si affermano come routine, la maggioranza delle persone non si aggreghi contro l’autore del sopruso, ed anzi più spesso rivolga i propri strali contro chi sta peggio.

Quest’ultimo fenomeno porta a pensare che, finchè le persone ritengono di avere ancora qualcosa da perdere, tendano a subire passivamente o, al limite, a difendersi da sole, ritenendo di essere in competizione egoistica con altri egoisti. Per quanto misero sia il poco che difendono, lo difendono da sole, e la comunanza con altri la trovano esclusivamente nel sentirsi minacciate, in quel poco e misero che hanno, da coloro che quel poco e misero non ce l’hanno. Da coloro che non hanno niente da perdere, appunto, perchè non hanno niente. Da quelli che stanno sotto, non da quelli che stanno sopra.

Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50°C avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.

Per chi non l’avesse mai letto o sentito citare, è un passo scritto da Noam Chomsky, linguista statunitense noto per l’attivismo politico radicale. E’ talmente celebre da essere divenuto quasi un luogo comune, ma contiene a mio avviso una grande verità. In GKN è successo che la rana è stata buttata subito nell’acqua bollente ed ha reagito. In tanti altri casi la moltitudine viene messa a cuocere a fuoco lento, fino a che si accorge, troppo tardi, che le hanno tolto tutto.

Nel mio settore (le banche) mi sono ritrovato a fare l’orribile, grossolano, triviale (cinico?) ragionamento che segue: secondo me, stiamo ancora troppo bene. L’acqua è sui 35 gradi, fa caldo ma ancora non scotta. E non parlo dei banchieri, quelli stanno sopra. Parlo dei bancari: la nostra relativa tranquillità economica – riconfermata da un recente rinnovo contrattuale che non ha eguali, quanto a recupero di potere di acquisto – ci rende da un lato immersi dentro una bolla che ci isola dal contesto sociale, al punto che c’è stato più di qualcuno che ha avuto l’ardire di lamentarsi perchè “si doveva ottenere di più”.  (andassero a raccontarlo agli infermieri, o ai vigili del fuoco, o agli addetti ai supermercati). Dall’altro, rende la moltitudine  – e mi riferisco sempre ad una maggioranza, non alla totalità – lamentosa ma inerte di fronte al peggioramento progressivo della qualità del proprio lavoro, e di conseguenza della propria vita. Colpa della pressione commerciale esercitata sugli addetti per massimizzare i profitti degli azionisti, che non bastano mai, e allora le sollecitazioni a vendere con disinvoltura i prodotti più redditizi – che spesso sono i più costosi per i clienti – diventano quotidiane, ossessive, condite talora di minacce. E cresce il ricorso agli ansiolitici, per tollerare la temperatura dell’ acqua nella pentola, che lentamente e inesorabilmente sale. E qui si inserisce la giaculatoria collettiva che disvela molto del rapporto che c’è tra noi stessi e il concetto di responsabilità, ma anche del rapporto che abbiamo con le organizzazioni cui conferiamo una delega: “e il sindacato cosa fa?”(da un anno faccio il sindacalista a tempo pieno. E’ un’attività che richiede un minimo di vocazione laica, altrimenti diventa un lavoraccio: per farlo bene la passione è indispensabile, anche se il disincanto diventa un’armatura necessaria contro le delusioni. E’ un confine molto sottile, quello che separa il disincanto dal cinismo, e conviene cercare di non oltrepassarlo: mentre il disincanto è un antidoto alle disillusioni, il cinismo con il tempo annulla la passione).

Ovviamente tutto ciò vale anche per altre aggregazioni collettive: i partiti, i governi, le amministrazioni locali. Molti hanno interiorizzato a tal punto il principio della delega che, contemporaneamente, la lasciano in bianco (come non farebbero nemmeno con l’addetto quando vanno a comprare una lavatrice) e la percepiscono come fossero i clienti di un servizio: io ti pago una quota e tu mi devi difendere. Lo scambio è privatistico: prestazione e controprestazione. La logica è commerciale. La deresponsabilizzazione, totale.

C’è un problema: che l’attività del sindacato è negoziare con una controparte, ma in alcune fasi il negoziato va sostenuto da azioni di forza, che dimostrino la potenza o anche semplicemente la potenzialità di entrare in conflitto con quella controparte. E qual è la forza di un sindacato, che per definizione rappresenta le parti deboli (cioè non proprietarie di capitale) del tavolo negoziale? La sua moltitudine. E’ quello l'”esercito” di riferimento. Se l’esercito viene “chiamato alle armi”, fosse anche per un’azione dimostrativa (fermare una lavorazione, oppure anche lavorare rispettando alla lettera le regole, che serve spesso a paralizzare il servizio) ma quasi tutti rimangono in caserma, tanto vale prendere atto di una mutazione non del sindacato, ma dei lavoratori, sindacalizzati e non; negare il valore del conflitto ed anzi negare che esista un reale conflitto, un po’ come sta facendo la “nuova” CISL della gestione Sbarra (ora la smetto con i paragoni bellici, di cattivo gusto specie in questi tempi).

Ad ogni modo, chiudo la parentesi sindacale. Può darsi infatti che stia rappresentando una situazione settoriale – anche se il riflusso sul proprio particulare non mi pare esattamente un fenomeno di nicchia. Inoltre, sono certo che molti lettori individueranno come concausa della disaffezione dei deleganti una inadeguatezza e mollezza dei delegati: critica accettabile, a patto che, come ogni critica, sia sostenuta da argomenti e capacità di distinzione.

Non chiudo invece la parentesi sulla responsabilità. Posso io essere considerato responsabile del riscaldamento globale?  Dell’avvento del governo Meloni? Posso essere considerato corresponsabile del ventennio berlusconiano? Posso avere una responsabilità nel fatto che da quattro anni la città sia amministrata da alcuni tra piccoli pregiudicati e persone affette da turbe del comportamento?

La risposta istintiva di chi, come me, crepa di caldo pur di non accendere il condizionatore (questa è una mezza bugia), non vota nè mai voterà missino, non guarda Mediaset, non ha votato naomo, potrebbe essere: no. Non mi sento per niente responsabile. Ho sempre fatto il contrario di quello per cui potrei essere accusato di essermela cercata. All’estremo opposto, la risposta istintiva di chi si carica sulle spalle i mali del mondo potrebbe essere: certo che sono responsabile, come anche della guerra in Ucraina, del conflitto israelo-palestinese, dell’Amazzonia che brucia e dei ghiacciai che si sciolgono. Mentre la seconda risposta può essere la spia che sia giunto il momento per un ciclo di buona psicoterapia, la prima risposta è tipicamente deresponsabilizzante.

Tocca scomodare Gaber: la libertà è partecipazione. Che è il contrario della delega. Se non ho partecipato nel mio piccolo mondo a qualche iniziativa – fosse anche di carattere familiare o condominiale – per cercare di modificare secondo i miei presunti principi lo stato delle cose, non ho fatto altro che delegare in bianco a qualcuno (alla meglio ogni cinque anni, dentro un’urna; alla peggio abdicando persino alla delega, così scelgono gli altri per me) la soluzione dei miei problemi e di quelli del mondo. Se è così, non posso prendermela coi delegati, me la devo prendere con me stesso.

In conclusione, il 2024 inizia sotto lo stesso cielo di piombo del 2023: tante moltitudini che non si fanno classe, se non quando sono condannate a morte, vera o figurata. Tante persone che non si prendono la responsabilità di niente, nemmeno delle piccole cose sulle quali potrebbero esercitare un’influenza – che poi sono quelle piccole cose che fanno la differenza tra dichiarare dei sani principi e praticarli, almeno un paio.

Non lo so se un altro mondo stia arrivando. Le giornate calme in cui si poteva sentir respirare il mondo, secondo me le abbiamo vissute. Per molti sono stati giorni tragici, di sofferenza e di morte. Per me, che ho avuto fortuna, sono state giornate silenziose e appartate, in cui ho potuto sentire il rumore calmo del mondo senza l’uomo. Ma poi è finito, ed è ritornato tutto come prima.

 

Photo cover: NYC, intersection of 57th Street and 3rd Avenue. March 29, 2020. Photo by Charlie Bennet.

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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