Un po’ di odore di fumo tra i capelli, le mani alzate coi polsi avvolti nel vecchio Casio al quarzo, camicie a scacchi e Vans ai piedi. E’ un salto indietro di trent’anni – al concerto all’Arci Zona Roveri di Bologna – dove Calcutta canta di “una cantina buia dove noi” e di tante ragazze per lui, come Irina che lo “invita a cena” e Lucia che lo “invita a uscire”, ma di cui alla fine non fa nulla, perché preferisce restarsene malinconicamente a casa col cane (anche se lui non c’è più). Chi già così tanto tempo fa ascoltava quasi clandestinamente le vecchie cassette di Lucio Battisti non può non ritrovarsi qui tra le parole della “Canzone del sole” e di “Dieci ragazze per me”. E anche dentro a quelle camicie scozzesi fuori dai jeans.
A coronare il flash back ci sono persino i dischi in vinile sul banchetto che vende i gadget del cantautore 26enne, arrivato da Latina con la sua felpa scolorita e l’aria scazzata. Per non dire delle fragole nella vaschetta che passa ai ragazzi della prima fila sotto al palco, per poi chiedere: “Vi sono piaciute? Fragole buone buone”. Cavolo, Luca Carboni! Ti giri e Carboni c’è davvero, ma non sul palco; è mescolato tra la folla di ragazzi con addosso un giubbotto mimetico e l’altrettanto mimetico anonimato di chi si trova in mezzo a una popolazione musicale che forse non è mai andata a gridare a un concerto le sue Persone silenziose, Farfallina, Dustin Hoffman che non sbaglia un film o il Fisico bestiale che ci vuole. In quel caso lì, al posto degli smartphone tenuti in alto nelle mani, c’erano gli accendini accesi a oscillare la loro luce sopra la folla. Gode di tranquillo anonimato anche Alberto Ronchi, fino a pochi mesi fa assessore alla Cultura della giunta bolognese di Merola e, da metà degli anni Novanta fino ai primi del 2000, assessore alle politiche e istituzioni culturali a Ferrara. Ma questo ci sta, perché Ronchi è sempre stato un politico fuori dal coro, e la sua passione per la musica lo ha portato a fondare la manifestazione “Ferrara sotto le stelle”, che dal 1996 a oggi mette insieme ogni estate una rassegna di concerti di musica contemporanea e indipendente nel cortile del castello estense.
Alle 23,30 ancora Calcutta non sale sul palco, ma via facebook annuncia “Ragazz* di zona roveri fra poco cominciamo/ non siamo stronzi, abbiamo solo aspettato che tutti entrassero”. Una volta in scena, parla, canta e si muove con quel fare trasandato ed elementare che spazza via tutto il senso di fasullo, confezionato e luccicante, che ormai sembra essere diventato un tutt’uno con la musica. Dice: “Al Covo (sempre a Bologna, ndr) mi hanno tirato preservativi e cortisone. Questo vuol dire che la gente ormai conosce le mie dipendenze. Dedico questa canzone al Bentelan!”. E via con “Del verde”, dove lui ancora battistianamente canta “preferirei del verde tutto intorno” e “preferirei perderti nel bosco che per un posto fisso/ preferirei una spiaggia di Sardegna/ preferirei scaldarmi con la legna”. Poi “Amarena”, che – spiega – “è il primo pezzo che ho scritto e quello che mi sembra sempre il più bello”.
I titoli delle sue canzoni anticipano subito la scelta di non essere altisonante, ma sempre periferico e sghembo, indie e pop. Come “Pomezia”, “Frosinone”, “Arbre magique”: dichiarazioni d’amore sottotono, la rabbia gettata lì così, per diventare poi quasi un malessere passeggero. I video su Youtube, che nel passaparola hanno portato in giro la voce e i testi di Calcutta fino a renderlo uno dei cantanti emergenti più apprezzati, sono girati come vecchie pellicole casalinghe. Anche le foto dei dischi hanno questa marginalità qui; non c’è l’immagine patinata del divo, ma un amico che esibisce la sciarpa col suo nome dietro a turisti in bermuda e tracolla da gruppo-vacanze.
Video di “Mi piace andare al mare”
Verso la fine del concerto con quella sua semplicità disarmante (che è poi uno stile distintivo), Calcutta dichiara: “Ormai ho finito tutti i pezzi che avevo e che quindi ve ne ricanterò alcuni che ho già fatto, solo che ve li faccio sentire arrangiati… un po’ peggio”. E vai con “Cosa mi manchi a fare” e “Gaetano”, roba di tutti i giorni mescolata nelle rime che scompigliano i luoghi comuni con disincantata malinconia. Canta “volevo avere dei figli/ né troppi né pochi/ né tardi né domani” e “ho fatto una svastica in centro a Bologna/ ma era solo per litigare/ non volevo far festa e mi serviva un pretesto/ ma in verità ti vorrei accompagnare/ fare ancor quattro passi con te/ ma è difficile se vai veloce/ stare al passo con te”. Spettacolo senza tanta messa in scena, che racconta i sentimenti senza la retorica. Finalmente qualcuno che ti torna a cantare vita e pensieri piccoli, tante volte contraddittori. Forse è questo che conta: è l’amore ai tempi della precarietà.
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Giorgia Mazzotti
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