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DA MOSCA – Sono a Roma con una cara amica, passeggiamo per il ghetto. Ci siamo riviste dopo tanti anni, appuntamento in un Campo dei Fiori illuminato dal sole del tramonto, bellissima piazza come sempre, fiorita, immersa nei colori dei tulipani e delle rose che fanno capolino dai chioschi che da lungo tempo la accarezzano. Maria mi aveva parlato di questo libro coinvolgente della Foa, e avevo, come al solito, dovuto attendere il mio rientro in Italia per acquistarlo. Dopo chiacchiere e cena, con lei varco il portone antico di Portico d’Ottavia 13. La mia amica abita lì ora, avrei visto quel luogo prima di leggere le parole impresse sul fuoco di quella professoressa che mi avrebbe tenuta incollata alle pagine intrise di storie nelle fredde serate moscovite. Sono scorsi fiumi d’inchiostro sulle deportazioni degli ebrei, sulle loro tragedie, le razzie che li hanno portati lontano, le loro anime vendute, rapite, violentate, rovistate, scucite, strappate, rovesciate, sballottate, sviscerate, trafugate, cancellate. Abbiamo visto molte immagini di quelle anime, fotografie, mostre, musei, film. Ma ora abbiamo una sensazione diversa, forte e intensa, quella di vederli per davvero, nella corte rinascimentale, per le scale, persi fra le belle logge, davanti alle porte dalle quali sono usciti per l’ultima volta il 16 ottobre 1943. Di quel giorno autunnale piovoso non ci sono foto, qualcuno dice per le esitazioni dei tedeschi di Dannecker di fronte a deportazioni degli ebrei romani effettuate proprio “sotto le finestre del Papa”, qualcuno pensa ad un caso, qualcun altro alla loro possibile esistenza in un archivio ancora inesplorato. Leggendo le pagine della Foa, che ha lungo abitato in quell’immobile, non si percepisce violenza ma solo fretta, povera gente che non comprende, che cerca di scappare, di rifugiarsi in case vicine ma che proprio per la fretta e i calci dei fucili che spingono violentemente e velocemente all’esterno, non riesce a sfuggire alla presa di tenaglia di rapitori di vite. Osservo le scale dal sapore antico: la casa si trova vicino all’omonimo portico del II secolo a.C., costruito in sostituzione del più antico Portico di Metello, e sulle cui rovine, nel medioevo, furono edificati un mercato del pesce e una chiesa. Dicevo, guardo quelle scale e le ricorderò bene quando leggerò che gli abitanti della Casa, quel funesto giorno di Ottobre, furono fatti scendere sotto il livello del suolo, fra i ruderi di quel Portico-mercato. Le persone più umili della comunità ebraica che vivevano nella Casa, ambulanti, sarti, falegnami con mogli, figli, cognate, venivano trascinati via, senza distinzione di sesso ed età; le liste erano stilate con precisione, i nomi chiari e impressi sulle pagine insanguinate che i reparti speciali avevano fra le mani. Leggiamo nomi e cognomi, storie di vite perdute, vediamo cantine buie e polverose dove qualche giorno dopo la razzia qualcuno avrebbe dato alla luce una bambina. Sono stata tentata di riportare il nome di questa madre, ma preferisco non farlo per non dimenticare tutti gli altri citati nel libro ma che io non ho elencato. Gradino dopo gradino, passo dopo passo, scala dopo scala, antro dopo antro, anfratto dopo anfratto, piano dopo piano, finestra dopo finestra, porta dopo porta, i ricordi si affacciano alla nostra immaginazione incredula e ferita. Ricordo che non abbiamo, per età ed esperienza di vita. Il merito di queste pagine è proprio quello di creare una memoria a chi non c’era, di farlo riflettere a lungo, di fargli sentire l’odore acre della paura, di chi, senza far rumore, era scomparso nel nulla.

riferimento bibliografico
Anna Foa, Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43, Laterza, 2013

La memoria è carità e giustizia per le vittime del male e del dolore, individui e popoli scomparsi talora anche in silenzio e nell’oscurità, schiacciati dal “terribile potere di annientamento” della Storia universale, come la chiamava Nietzsche. La memoria è resistenza a questa violenza; essa significa andare alla ricerca dei deboli calpestati e cancellati, di quella “pietra rifiutata dai costruttori”, di cui il Signore farà la pietra angolare della sua casa, ma che giace sepolta sotto le rovine e i rifiuti e va ritrovata e custodita con amore e rispetto. (Claudio Magris)

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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