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Il grafico che segue contiene i dati a consuntivo del bilancio dello Stato fino al 2017 e prosegue poi con le previsioni fino al 2021. Cosa ci dice?

Intanto riportiamo il tutto in percentuale del Pil, il che aiuta a fare le proporzioni di quanto si spende in un dato anno rispetto a quanto si ha a disposizione e aiuta a fare un confronto più agevole con gli anni precedenti

Si osserva dunque che l’indebitamento dello Stato si sta assottigliando sempre di più e che, quindi, stiamo andando verso un sostanziale pareggio di bilancio.

Il dato inquietante però è che, come si vede in termini assoluti dai saldi del primo grafico e dalle percentuali del secondo grafico, l’indebitamento si abbassa al crescere del saldo primario, che rappresenta in sostanza la spesa primaria dello Stato, cioè i costi sostenuti dallo Stato nell’assicurare i bisogni primari dei cittadini: istruzione, sanità, welfare, assistenza. In sostanza già adesso sappiamo che per ottenere quei risultati di bilancio avremo sempre meno risultati nel sociale. Avremo insomma: meno istruzione, meno sanità, meno welfare, meno assistenza.

Andiamo al dettaglio.
Dal lato delle spese (uscite), possiamo apprezzare che dal 2015 al 2021 sono previste diminuzioni in termini percentuali praticamente in tutto. 2,3 punti nella spesa corrente al netto degli interessi e 1,2 punti nella spesa in conto capitale. Gli interessi passivi, invece, continueranno a essere una spesa sostanziosa sul totale, caleranno solo dello 0,3%. In termini assoluti cresceranno da 68 miliardi e 61 milioni del 2015 a 72 miliardi e 297 milioni del 2017, in termini sociali continuerà semplicemente a rappresentare la terza spesa dello Stato dopo previdenza e sanità.

Dal lato delle entrate. Un calo delle entrate tributarie dello 0,8% e dello 0,2% dei contributi sociali. Il resto della diminuzione viene dalla voce “Altre entrate correnti”, in pratica da entrate eventuali e non certe, dello 0.5%.

Dunque lo Stato si prefigge di arrivare a un sostanziale pareggio di bilancio che dovrà essere ottenuto attraverso il contenimento della spesa. Si manterranno sostanzialmente stabili le spese per il sociale e non si faranno investimenti, il che rende la crescita solo eventuale e legata a fattori esterni, cioè si dà per certo un costante aumento delle esportazioni, niente shock valutari e materie prime sostanzialmente a buon mercato.
Dovendo rispettare i parametri imposti dai trattati europei lo Stato potrà quindi solo incassare e non spendere, dovrà in pratica finanziare tutte le sue spese con le tasse dei cittadini, i quali dovranno anche finanziare l’indebitamento sui mercati, cioè mantenere costante la spesa per interessi che, nonostante si arrivi al pareggio di bilancio, ci continuerà a costare mediamente 70 miliardi all’anno.
Il tutto nella speranza che non cambino le condizioni internazionali sopra descritte, perché se uno dei fattori variasse allora tutto il costrutto crollerebbe, il pil smetterebbe di crescere e quindi dovrebbero necessariamente aumentare le entrate (tasse) per restare nei parametri di Bruxelles.

Parametri fissi in un mondo in continuo mutamento, un po’ come programmare la nostra vita immaginando una temperatura costante di 20° in tutta Europa per i prossimi 3 anni. In realtà non possiamo sapere se domani il prezzo del petrolio aumenterà o se l’euro si apprezzerà nei confronti del dollaro, quindi non possiamo sapere se dovremo spendere di più in importazioni o se incasseremo di meno con le esportazioni. L’unico modo per non bagnarsi quando ci sono nuvole all’orizzonte in mezzo a tuoni e lampi è uscire con l’ombrello e l’impermeabile, avere insomma degli strumenti da poter utilizzare al bisogno.
Le regole europee impongono invece di lasciare ombrelli e impermeabili a casa per non rischiare di consumarli e contemporaneamente prevedono sanzioni nel caso ci si bagni. Uno Stato ha i mezzi per controllare mercati, interessi, cambi, debito e moneta, ma decide di affidarsi a una Commissione che provveda a sanzionarlo se dovesse decidere di usarli.
In sostanza si creano previsioni che servono solo ad aggiustare i conti, senza tener conto dei bisogni dei cittadini, stando bene attenti a che questi ultimi paghino costantemente gli interessi a banche, finanza e speculatori occasionali o di professione. Interessi che vengono immaginati costanti anche quando lo Stato smettesse di indebitarsi, a pareggio di bilancio raggiunto.

E che i bisogni dei cittadini non siano al centro degli interessi lo si vede dalle previsioni contenute nel Def (documento di economia e finanza) del passato Governo.

Il che vuol dire che ancora nel 2020 più del 10% della popolazione non usufruirà dei vantaggi dell’approssimarsi della messa in sicurezza dei conti, che il cittadino va da una parte e le previsioni economiche dall’altra. E allora non si gridi allo scandalo se qualcuno continuerà ad avere dubbi sulla costruzione dell’impianto europeista basato sulla stabilità dei conti e sul benessere competitivo e concorrenziale alla portata di pochi scaltri o fortunati.

Come se ne esce dal lato del cittadino? Semplicemente imparando a considerare uno Stato diverso dalla bottega del barbiere: ridandogli gli strumenti per proteggersi dalla pioggia ovvero una Banca Centrale di proprietà dei cittadini, ripristinando il controllo sui capitali, mettendo limiti alla globalizzazione e dando più attenzione ai territori, con piccole banche locali che diano credito agli imprenditori locali, sul modello tedesco per esempio, supportando la produzione e l’industria italiana, la piccola e micro impresa, cioè il 95% delle aziende italiane. Aggiungerei un freno all’idea che tutto ciò che è grande è anche bello, quindi un limite alle multinazionali che poco hanno a che fare con la tradizione e la realtà italiana e per finire un deciso stop alle privatizzazioni che limitano la possibilità di poter operare un controllo dello Stato a favore della comunità.

La nostra vita non è rappresentabile in un foglio di bilancio esattamente come il pil non rappresenta la felicità. Inoltre bisognerebbe considerare l’oggetto dei bilanci, cioè i soldi, come il mezzo per scambiare i beni e i servizi e non il mezzo per produrli e, per finire, comprendere non c’è bisogno di tenere realmente il tasso di disoccupazione all’11% perché il lavoro non manca, ci sono tante cose da fare. Quello che oggi manca non è il lavoro, ma solo i soldi per pagarlo e questo in un mondo dove i soldi… non possono finire!

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Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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