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Il 14 aprile, a New York, sono stati annunciati i vincitori del premio Pulitzer 2014, il più prestigioso premio giornalistico statunitense. Tyler Hicks ha vinto il Pulitzer 2014 Breaking News Photography, con la sua immagine di una madre che protegge i propri figli sul pavimento di un caffè, durante un attacco terroristico al centro commerciale Westgate Mall di Nairobi, il 21 Settembre 2013.

Vent’anni prima, nell’aprile 1994, due immagini, altrettanto forti, avevano ottenuto il premio Pulitzer per la fotografia: quella del canadese Paul Watson per il giornale Toronto Star (miglior fotografia d’attualità) e quella del professionista indipendente sudafricano Kevin Carter (miglior fotografia giornalistica).

Watson era stato premiato per un’istantanea di un corpo di un soldato americano trascinato da una folle ostile lungo le vie di Mogadiscio. La sua diffusione televisiva aveva sbalordito l’America che, la sera della proiezione, probabilmente, si era interrogata se la presenza militare-umanitaria delle proprie truppe in Somalia valesse una tale umiliazione mondiale. Cosciente dell’impatto politico della scena e della sua possibile influenza su un eventuale ritiro anticipato delle truppe americane dalla Somalia, il settimanale Time decise di pubblicare l’integralità della documentazione.

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1994 Pulitzer Prize, Spot News Photography, Paul Watson, Toronto Star

Il secondo premio, quello attribuito a Carter, rappresentava, invece, una scena costruita, per quanto involontariamente. Scattata nel villaggio di Ayod, nel Sud Sudan, la fotografia mostrava una bambina famelica, raggomitolata con la faccia a terra, spiata da un avvoltoio appostato dietro di lei, molto vicino. La similitudine fra la posizione della piccola sudanese e quella dell’animale rafforzava la drammaturgia della scena: la preda e il predatore si osservavano in una stessa figura, come se la stanchezza della vittima avesse ricalcato la sua forma sull’attesa del rapace. Ci s’immagina il fotografo, appostato su un fianco, con il dubbio che sia lui stesso un “avvoltoio” che opera nel campo prediletto dell’azione fotografica dato da carestie, guerre e catastrofi. Il fotoreporter, quando non è accusato di “voyeurismo”, è, quanto meno, sospettato di freddezza verso l’orrore che svela (e a volte, pure, di duplicità se non, addirittura, di complicità. Ma Carter raccontava allora: “a circa 300 m dal centro di Ayod, ho incrociato una bambina al limite dell’inedia che tentava di raggiungere il centro di alimentazione. Ella era così debole che non poteva fare più di due passi alla volta, cadeva regolarmente all’indietro, cercando disperatamente di proteggersi dal sole coprendosi la testa con le sue mani scheletriche. Poi si rimetteva in piedi, difficilmente, con una piccola voce acuta. Sconvolto, mi ritiravo ancora una volta di poi dietro la meccanica del mio lavoro, assalito dalla polvere. Essendo il mio campo di visione limitato a quello del mio teleobiettivo, non ho notato il volo degli avvoltoi che si avvicinavano intorno, fino a quando uno di essi si è posato, apparendo nel mio campo visivo. Ho scattato, poi ho scacciato il rapace con un piede. Un grido saliva in me. Ho percorso 1 o 2 chilometri dal villaggio prima di scoppiare in lacrime”.

Annunciando il premio al telegiornale di France 2, giovedì 4 aprile 1994, la voce off del commentatore aveva esclamato: “come dire tutto in una foto!”

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1994, Pulitzer Prize, Feature Photography, Kevin Carter

La foto dell’avvoltoio che osserva la bambina, quasi ne aspetti la morte, fece il giro del mondo e, allo stesso tempo, dette vita a una serie di polemiche sul ruolo del fotografo nello scatto. La gente cominciò ad interrogarsi sul destino di quella creatura e sulla moralità della fotografia. Carter non fu mai chiaro su quello che successe al momento dello scatto e raccontò diverse versioni della vicenda. Certo è che lo scandalo mediatico che si creò turbò profondamente il fotografo che, tormentato dall’immagine della bambina che gli ricordava la figlia piccola che riusciva a vedere solo raramente, cadde in profonda depressione. Il fotografo, che aveva anche gravi problemi di droga, si suicidò nel luglio dello stesso anno.

Carver aveva voluto dimostrare, forse, che di fronte all’oppressione, alla violenza e ai crimini, nulla è peggio dell’assenza d’inchiesta e di testimonianze. Contro le atrocità è meglio un’immagine, indipendentemente dalla sua ambiguità, dalle motivazioni del suo autore e dal suo impegno, che nessuna.

Con una sola potente, scandalosa e forte immagine, che fa il giro del mondo, a volte, si può dire molto di più che con mille parole.

Il messaggio umanitario di questo Premio Pulitzer magari voleva essere unico e semplice: possiamo abbandonare le popolazioni del Sud Sudan agli avvoltoi ?

Nulla di più attuale.

Nella foto in evidenza: 2014, Pulitzer Prize, Breaking News Photography, Tyler Hicks, The New York Times

[L’articolo è anche su http://www.omero.it/omero-magazine/fotografia/a-ventanni-dal-premio-pulitzer-per-la-fotografia-guerre-violenza-e-sud-sudan-sono-ancora-tristemente-attuali/]

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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