Globalizzazione e dazi:
oltre Trump, un’altra economia è possibile
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Globalizzazione e dazi: oltre Trump, un’altra economia è possibile
Per la maggioranza dei nostri media Trump è un folle che ha messo in discussione con i dazi l’intera economia globale. Sperano di tornare prima possibile al libero scambio che farebbe gli interessi di tutti i paesi e i cittadini del mondo. Per ora a parlare contro i dazi sono soprattutto Governi, banchieri, le multinazionali (americane incluse) che sperano che Wall Street e la finanza messa a dura prova in queste settimane facciano rinsavire Trump. Trump è un repubblicano anomalo, ma che le multinazionali, Wall Street, i banchieri e il liberismo (col libero scambio) siano di sinistra è perlomeno dubbio.
Karl Marx espose le sue idee sul libero scambio nel 1847 in “On the Question of Free Trade”. Riconobbe che il libero scambio ebbe un ruolo rivoluzionario, poiché distrusse i resti del feudalesimo, spinse verso la crescita del capitalismo e la modernizzazione dell’economia. Tuttavia era convinto che non portasse alla pace né al benessere per tutti, come sostenuto da Montesquieu, Smith e Ricardo, ma avrebbe aumentato lo sfruttamento dei lavoratori, la concentrazione della ricchezza e le disuguaglianze.
Alcuni economisti come gli americani M.Klein e M. Pettis (Le guerre commerciali sono guerre di classe, ed.Einaudi, 2020), hanno ripreso questa analisi che vedono confermata nei guasti della recente globalizzazione, che ha sviluppato come non mai il libero scambio, producendo:
a) disuguaglianze in aumento all’interno dei singoli paesi,
b) un aumento dell’impoverimento degli operai di tutti i paesi ricchi,
c) l’aumento dei profitti delle imprese e dei redditi del 10% dei benestanti,
d) uno squilibrio commerciale tra Stati che porta di conseguenza all’attuale instabilità commerciale (50 anni fa l’import Usa era del 5% sul PIL, oggi è del 14%).
Trump sarà anche matto come un cavallo, ma è stato votato dalla maggioranza degli operai americani, molti dei quali licenziati dalla globalizzazione. Gli uomini senza lavoro non potevano mettere su famiglia e senza lavoro e famiglia (negli Usa non c’è il welfare state europeo) molti sono scivolati nell’alcolismo e nella droga. In tanti si sono tolti la vita. Anche questo spiega i 100mila morti per fentanyl del 2024, la crescita della criminalità e il calo della speranza di vita degli Stati Uniti, caso unico al mondo.
La globalizzazione ha distrutto anche la manifattura americana, portato alle stelle il suo deficit commerciale e il debito pubblico americano (36 trilioni) e il deficit annuo è del 7%, maggiore di quello dell’Italia. L’America è ancora il n.1 per PIL, armi (come la dipinge il mainstream) ma si potrà convenire che le cose non le vanno così bene, soprattutto se si rammenta che nelle 63 principali tecnologie la Cina ha la leadership di 57 mentre solo 20 anni fa lo era solo in 3 o 4; gli Stati Uniti producono il 4,5% dell’acciaio mondiale contro il 54% della Cina, che possiede il 90% delle terre rare.
I dazi ci sono sempre stati (ora sono in media del 4,8% tra Europa e Usa e del 10,8% sui prodotti agricoli) e il ritiro dell’America dal commercio globale non sarà la soluzione di tutti i suoi problemi, ma così non si poteva continuare e forse c’è una terza via virtuosa rispetto al “tornare come prima al libero scambio deregolato” che tanto piace ai nostri media, banchieri, multinazionali e a Wall Street.
Si potrebbero introdurre dazi per esempio verso quei paesi che non rispettano i contratti, il salario minimo, i diritti umani, applicando nel commercio uno “standard sociale” che favorisca i lavoratori di tutto il mondo e che spinga gli Stati a non abusare nello sfruttamento dei propri lavoratori pur di aumentare l’export, in modo che possano consumare gran parte del valore di quello che producono e quindi investire sul proprio Paese e la propria domanda interna.
Gli Stati Uniti sono tormentati da una disuguaglianza estrema, dal degrado delle infrastrutture (porti, strade, ferrovie,…), da bassi salari e dal fatto che la metà dei propri lavoratori non vede un aumento del proprio tenore di vita da 25 anni. Una situazione simile, peraltro, a quella dei grandi esportatori Cina, Germania, Italia, Messico che si differenziano dagli Stati Uniti per avere un forte saldo attivo commerciale (proprio vs USA).
Con la globalizzazione si è infatti avviato un iper processo per cui le imprese, tanto più se multinazionali, hanno creato filiere lunghissime come se il loro Stato fosse l’intero mondo (“piatto”), in modo da aumentare i profitti e il reddito di tutta la fascia alta dei lavoratori (banchieri, avvocati, trader finanziari, dirigenti, quadri, tecnici, professional), ma abbassando i salari di tutti gli altri lavoratori dei paesi avanzati, puntando sull’export più che sulla crescita della domanda interna ai singoli paesi.
Investire sulla domanda interna significa impostare un modello di sviluppo completamente diverso, che punta ad alti salari per tutti, a investire sul proprio paese, sulle infrastrutture, il trasporto pubblico, le energie verdi, la propria manifattura, rafforza il proprio welfare. Investire su globalizzazione ed export significa il contrario: favorire le élite di tutto il mondo (quelle dei paesi ricchi e poveri). Abbiamo assistito al trasferimento della produzione nei paesi poveri, dove la manodopera è sottopagata rispetto al valore che produce, per poi rivendere le merci ai consumatori (americani,…) con margini più alti. Ciò ha arricchito tutte le imprese e i ricchi del mondo (anche nei paesi poveri, Cina inclusa) a svantaggio dei lavoratori e pensionati dei paesi avanzati. La globalizzazione alimenta la disuguaglianza e viceversa e ciò spiega perché in tutti i paesi la disuguaglianza cresca. Lo dice anche Bernie Sanders, leader della sinistra Dem: “la globalizzazione rende più facile lasciare i lavoratori americani in mezzo alla strada e premia (nei paesi poveri) alcuni dei massimi colpevoli di violazione dei diritti umani”.
I dazi sono quindi una conseguenza quasi inevitabile della globalizzazione nella sua forma attuale, in cui la “guida” dei processi è stata assunta, più che dai singoli Stati, dalle più importanti banche commerciali e d’investimento e dai detentori di capitali finanziari. Semmai stupisce che gli americani abbiano tollerato il sistema del libero scambio così aperto per così tanto tempo. Quando venne istituito 80 anni fa, gli Usa producevano metà di tutta la produzione mondiale, oggi sono scesi al 15% (la Cina è al 30%).
Non è quindi vero che, come la descrive il nostro mainstream, la guerra commerciale dei dazi è un conflitto tra paesi. Piuttosto è un conflitto tra banchieri, detentori di asset finanziari, multinazionali e famiglie comuni dall’altro. Un conflitto tra ricchissimi e tutti gli altri. Ovviamente gli operai americani non sono le uniche vittime, lo sono anche gli operai italiani, tedeschi e cinesi, anche se i loro Stati sono in surplus commerciale, in quanto i loro salari non vengono pagati al valore che producono, il quale va a finire nei profitti e poi in asset finanziari “sicuri” che un tempo erano il dollaro (che ora vacilla). Tutte cose che aveva previsto Keynes, anche se uscì perdente dagli accordi di Bretton Woods nel 1945.
Ciò significa che se vogliamo un mondo migliore nel post-dazi di Trump, è illusorio pensare di tornare al vecchio mondo della globalizzazione e al persistere di un forte export di Europa, Messico e Cina verso gli Stati Uniti. Sarà necessario un riequilibrio e un ritorno (almeno in parte) ad investire da parte di tutti nella domanda interna del proprio paese con vantaggi per le famiglie comuni e i lavoratori e con meno profitti per i ricchi. Investire nella domanda interna più che sull’export riduce le disuguaglianze interne e la compressione del potere d’acquisto dei lavoratori e dei pensionati (Ford raddoppiò i salari per poter vendere più auto).
Non a caso la maggiore eguaglianza favorì (caso unico nella storia) la crescita nei famosi “30 anni gloriosi” del secondo dopoguerra che hanno portato alla nascita del welfare in Europa e alla buona America con le maggiori conquiste civili e ad un forte aumento del tenore di vita dei lavoratori e pensionati.
E’ vero che ci sono benefici in un mondo aperto al commercio, ma ci sono anche costi. Se i salari da noi non sono cresciuti, si dice che la globalizzazione però avrebbe aumentato i salari dei lavoratori cinesi e di altri paesi poveri: vero, ma non si dice che in Cina esiste il sistema hukou che impone a milioni di contadini di non lasciare la propria residenza. Chi lo ha fatto (oltre 100 milioni) recandosi nelle città industrializzate è sottopagato, sfruttato e senza alcun diritto di pensione, sanità e istruzione. Un sistema che si fonda sulla disuguaglianza e che usa una quota enorme di sfruttati per stare in piedi: hukou in Cina, immigrati illegali da noi e quel 10% di forza-lavoro senza contratti in Italia, mini job in Germania.
La stessa Germania col suo avanzo commerciale mostruoso verso gli Stati Uniti (come Italia e Cina) ha puntato su una politica di export che ha prodotto un contenimento della domanda interna, dei salari, degli investimenti nelle proprie infrastrutture e, in definitiva, uno spostamento dei benefici a favore della propria élite e dal Lavoro al Capitale. Questo è l’esito del libero scambio deregolato in tutti i paesi (Europa, Cina, Stati Uniti), dove la quota che va dal Lavoro al Capitale è cresciuta in media di 10 punti ovunque, il che spiega le difficoltà in molti paesi dei lavoratori (Italia in primis) e dei bassi salari.
Mi pare che ci sia abbastanza per evitare facili semplificazioni, in cui si finisce per fare il tifo per Wall Street.
Cover image: Bethlehem Steel, Pennsylvania, wikimedia commons

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Andrea Gandini
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
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