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Gaza. Non un piano di pace ma un furto di sovranità e di territorio

Gaza. Non un piano di pace ma un furto di sovranità e di territorio

Il discorso con il quale Donald Trump, il 29 settembre, ha annunciato il piano di pace per Gaza ha resuscitato, con un surplus di ferocia, il motto con il quale, nei primi anni del Novecento, Theodore Roosvelt riassumeva la pretesa degli Stati Uniti di esercitare il ruolo di gendarme dell’America Latina: speak softly and carry a big stick; you will go far. Parla gentilmente e portati un grosso bastone; andrai lontano.

Dietro le parole gentili e rassicuranti – «una delle più grandi e belle giornate nella storia della civiltà», levatrice della «pace perenne in Medio Oriente» –, il presidente americano ha subito tirato fuori il bastone: in caso di rifiuto di Hamas, «Israele avrà il mio pieno sostegno per finire il lavoro». Il che significa, né più né meno, che gli Stati Uniti aiuteranno Israele a portare a termine il genocidio in corso.
Il piano di pace, così presentato, è soltanto una pistola puntata alle tempie, un ultimatum.

Le conferme arrivano dal contenuto. A riportarci indietro nel tempo, dritti nel cuore di tenebra dell’Occidente, è l’infamia scolpita nei 20 punti del piano e, in particolare, nel punto 9: «Gaza sarà governata da un comitato palestinese tecnocratico e apolitico […] con la supervisione e il controllo di un nuovo organismo internazionale di transizione, il “Consiglio di pace”, che sarà guidato e presieduto dal presidente Donald J. Trump, con altri membri e capi di Stato da annunciare, tra cui l’ex primo ministro Tony Blair».
Siamo nel più classico degli schemi coloniali. Addirittura peggio di un protettorato, dove almeno era salvaguardata la finzione dello stato indipendente. L’idea di affidare a un’autorità internazionale la gestione della striscia di Gaza, per di più senza limiti temporali e sotto la supervisione statunitense, espropria i palestinesi della possibilità di decidere del loro destino politico, della loro vita e del loro futuro. Sotto la promessa della ricostruzione e della “riqualificazione” – parola, quest’ultima, più volte ripetuta nel piano e ormai divenuta una delle più temibili del lessico capitalista –, la sovranità del popolo palestinese viene condizionata, sospesa, rimandata.

Il progetto prevede che la “normalità” arrivi solo in un futuro e imprecisato momento in cui l’Autorità Nazionale Palestinese avrà dato prova di sapersi riformare secondo le linee del piano di pace di Trump del 2020 e di quello franco-saudita. Il linguaggio ricorda in maniera brutale i mandati coloniali del secolo scorso: la sovranità del popolo palestinese non è un diritto, ma un premio che potrà essere concesso solo se le volontà stabilite da Washington e dai suoi partner verranno rispettate. A condizione, naturalmente, che la leadership palestinese e il suo riformarsi vengano certificati dall’esterno. Dove c’è condizione non ci può essere libertà, né per i singoli né per i popoli. Con ogni probabilità, siamo di fronte a uno dei più grandi oltraggi di tutti i tempi a quel principio di autodeterminazione dei popoli che dovrebbe costituire il fil di ferro delle relazioni internazionali, la trama fondamentale della Carta delle Nazioni Unite.

Tolta al popolo la possibilità anche solo di mettere bocca sul proprio regime politico e sul proprio sviluppo economico, sociale e culturale – punto 10: il piano di sviluppo economico per ricostruire e rilanciare Gaza sarà di Trump –, il futuro Stato palestinese diventa pura chimera e come tale è trattato nel punto 19 del piano: «Con il progredire della ricostruzione di Gaza e l’attuazione fedele del programma di riforme dell’Autorità Palestinese, potrebbero finalmente crearsi le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese, che riconosciamo come aspirazione del popolo palestinese».

Il furto di sovranità va di pari passo con il furto di territorio.
Il piano prevede che l’esercito israeliano si ritirerà gradualmente da Gaza, attestandosi su incerte linee concordate, ma non prevede una deadline. A riprova della fumosità, Netanyahu, il giorno dopo la presentazione, ha dichiarato che l’esercito israeliano resterà nella Striscia.

L’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale ha dato atto che se il conflitto venisse congelato lungo le attuali linee del fronte, circa l’80% della Striscia resterebbe nel controllo delle forze armate israeliane.
Allegata al piano di pace, in rilievo eminente, vi è una mappa dalle quali dovrebbero emergere le linee di ritiro dell’esercito israeliano, ma dalla quale si capisce che la forza internazionale di stabilizzazione (IFS), da dispiegare a Gaza durante il mandato dell’autorità di transizione, continuerà a controllare una fetta consistente del territorio della Striscia, circa il 20%, ulteriore pezzo di terra sottratta ai palestinesi. Credevamo di vederle ormai solo nei libri di storia del Novecento, quelle mappe del potere. E invece no. Alle più terribili mire del colonialismo e del capitalismo occidentale, desideroso di investimenti nella ricostruzione di Gaza, si unisce il peggio dell’immaginario del patriarcato, incarnato da quei maschi bianchi di potere che rispondono al nome di Donald Trump e Tony Blair, gli unici citati nel piano, i padri della “pace”.

Così descritto, il piano sembra una scusa per portare a termine lo sgombero della Striscia e attribuire ad Hamas la responsabilità del sabotaggio della pace. A destare una sensazione di disorientamento, sono le reazioni di favore al piano manifestate da tutti i leader dell’Ue, dalla presidente dell’Europarlamento Metsola al presidente del Consiglio europeo Antonio Costa, passando per tutti i capi di Stato e finendo con Ursula von der Leyen.

Persino il pontefice, Leone XIV, ha definito “realista” il piano di Trump per Gaza. L’urgenza della fine del genocidio, infatti, non può cancellare che quello che si prova a fare di Gaza è un pericoloso laboratorio geopolitico, devastante per il popolo palestinese e idoneo a essere esportato in altri contesti (Ucraina, Taiwan?).

Chiaro che al primo posto resta l’urgenza di tutelare le vite delle persone in Palestina e vedremo ora la risposta di Hamas. Che vada in porto o meno, quel piano rimarrà comunque una ferita del mondo. Risuonano le parole con le quali, a distanza di cinque anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e dell’approvazione della Carta delle Nazioni Unite, Aimé Césaire dava avvio a uno dei più significativi (e meno accomodanti) documenti politici del Novecento, il Discorso sul Colonialismo: «Il fatto è che la cosiddetta civiltà “europea”, la civiltà “occidentale”, così come è stata forgiata da due secoli di regime borghese, è incapace di risolvere i due problemi che la sua stessa esistenza ha generato: la questione del proletariato e la questione coloniale».

Riccardo De Vito
Riccardo De Vito, è giudice al Tribunale di Nuoro. Già presidente di Magistratura democratica, è componente del comitato di redazione della rivista Questione giustizia.

In copertina:  Trump e Netanyahu – fonte Wikimedia Commons
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