Vero, i due oggetti non si assomigliano per niente. Con uno si fischia, nell’altro ci metti il vino. Ma insomma, almeno i fiaschi, rispetto ai fischi, hanno solo una vocale in più. Può succedere di “prendere fischi per fiaschi”. Infatti accade spesso, quasi tutti i giorni.
Ma qui La cosa è molto più grave. Inspiegabile.
Com’è possibile scambiare il più alto e celebrato dei sentimenti, come può succedere di imbattersi (in quel dì fatale) nell’Amore (la maiuscola è d’obbligo) per poi scoprire che “quella cosa meravigliosa”, sospesa tre metri sopra il cielo, non era altro che un calesse: una carrozza, un carretto, un biroccio, chiamatelo come vi pare.
Il film è del 1971, non è il più bello tra quelli interpretati dalla nostra ultima maschera comica, il grandissimo Massimo Troisi, ma da trent’anni “Pensavo fosse amore… invece era un calesse” è diventato un modo di dire colloquiale. Una massima. Un proverbio. L’esatto riassunto di ogni amore andato in fumo.
Ma tutto questo solo dopo (dopo la delusione amorosa, intendo), quando uno (o una, o tutti e due) apre improvvisamente gli occhi e si accorge dell’incredibile abbaglio di cui è stato vittima. Vittima colpevole, occorre aggiungere, perché dal primissimo istante, da quando il suo sguardo si è posato sull’oggetto/soggetto amoroso, avrebbe potuto, dovuto vedere che in verità di tutt’altro si trattava, un calesse, appunto.
L’amore sarebbe proverbialmente cieco? No, la scusa non regge. E’ cieco?
Analizziamo. Il calesse si può toccare con le mani, l’amore invece sta lassù, su una nuvola confusa. Due oggetti senza alcun punto di contatto: con un colore, un odore, una forma, e corporatura e voce che più diverse non si può. Un palpito del cuore e una carrozzella sono due cose avulse.
Ma è proprio per questa alterità assoluta, lo scambio/abbaglio tra un amore e un calesse ci dice tantissimo sull’epifenomeno amoroso, il quale, com’è noto, occupa una cubatura libraria pari all’ottanta per cento del totale della letteratura mondiale (buona e cattiva), senza peraltro che nessun autore, per quanto grande, sia riuscito a raggiungere e a proporre una spiegazione definitiva del fenomeno stesso. Spiegazione che sarebbe utile ai lettori. E utile massime agli amanti, che invece continuano a cadere nel tranello, ad accorgersi con doloroso e puntuale ritardo che ciò che li aveva folgorati, ciò per cui avevano palpitato, adorato, idealizzato, santificato – che magari li aveva disgraziatamente spinte/i a scrivere e dedicargli/le una poesia – non era niente di più o di meno di una carrozza. Cavallo compreso.
Pensavo fosse amore… invece era un calesse
(Film con Massimo Troisi e Francesca Neri, 1971)
Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.
Se già frequentate queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.
Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani. Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito. Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.
Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta. Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .
Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line, le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.
Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e di ogni violenza.
Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”, scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchera.
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