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Il rinuncianesimo è neologismo coniato da una studentessa di Torino che intende abbandonare lo studio, lo racconta Andrea Bajani, autore dell’ultimo libro sulla scuola sfornato dall’editoria di casa nostra con il titolo provocatorio La scuola non serve a niente. Luogo comune abbastanza facile nella sua superficialità, che forse deve il suo rinverdimento a uno dei limiti più gravi della nostra classe docente, quello di non saper parlare di scuola, di istruzione, di formazione al Paese. Questi professionisti della cultura diffusa, non solo non hanno voce, ma non hanno neppure saputo prendersela, questo, al di là di tutto, credo sia il loro limite, la vera ragione della loro scarsa considerazione sociale.
Del rinuncianesimo, di nuovo conio, è inquietante soprattutto il suffisso esimo, usato negli ordinali, che immediatamente colloca questa ragazza all’ennesimo posto dei fallimenti della scuola, quantificato nel 17,6% di giovani che abbandona precocemente gli studi.
Ma il rinuncianesimo non è della studentessa di Torino che si assume la responsabilità di fare i conti con la propria vita, semmai è quello di un paese che non sa pensare alla sua scuola a partire da chi vi lavora dentro, che si riempie la bocca dei dati Ocse per continuare poi a balbettare, per finire con la politica che sull’istruzione insiste a poltrire e, quando si sveglia, non c’è di testa, non ha un sogno, ma solo incubi da scaricare sulla mal capitata scuola nazionale.
Di questo rinuncianesimo parlano i dati Ocse che sono la cattiva coscienza delle politiche per l’istruzione nel nostro paese. Ci dicono di un Paese che ancora non ha imparato a prendersi cura della sua scuola, di un Paese che non ha cura dei suoi figli, che considera le persone come sudditi anziché come risorse.

La storia nazionale della scuola non inizia certo dalla parte dei bambini e delle bambine e neppure dalla parte della massa dei diseredati dell’istruzione, ma al servizio delle esigenze politiche ed economiche dello Stato all’indomani dell’unificazione. E sono sempre queste esigenze che hanno continuato e continuano a prevalere su tutto.
La strada per costruire scuole di bambine e di bambini, di ragazze e di ragazzi, anziché alunni, allievi, scolari è ancora lunga. Ancora lunga è la strada da percorre perché lo Stato riconosca nei suoi studenti le sue figlie e i suoi figli, le risorse da difendere, da tutelare, da far crescere, da non disperdere. Credo sia questo il vero significato della società della conoscenza, di conoscenza si vive, si respira, si cresce.
Così anche il sistema nazionale di valutazione, che dovrebbe misurare per consentirci di vedere e di capire, per aiutarci a cambiare, fino ad ora è parso più al servizio dell’Ocse che dei nostri ragazzi. Quello che ci serve non è valutare se il malato è stato bravo a guarire, ma se quell’ospedale l’ha saputo guarire, in quanto tempo e con quali cure e a quali costi.

La scuola è il luogo dove si lavora sui saperi, montandoli e smontandoli, è laboratorio continuo, laboratorio come atteggiamento mentale. Da tempo la didattica dell’insegnamento avrebbe dovuto cedere il posto alla didattica dell’apprendimento. Ma pare proprio che non sia ancora così. Se non cambia l’approccio, le stesse prove dell’Invalsi potrebbero rischiare di farci tornare indietro ad un insegnamento ripetitivo, di esercizio fine a se stesso, che rischia di perdere di vista il titolare dell’apprendimento che non è il docente, non è la scuola, ma ogni singola bambina e ogni singolo bambino, ciascun ragazzo e ciascuna ragazza.
D’altra parte i nostri curricoli scolastici non sono stati concepiti avendo di mira il diritto all’istruzione delle persone, tanto meno nel significato che oggi assume nella società della conoscenza, ma avendo come esclusivo fine l’integrazione degli individui nello Stato-nazione. Questo ha trasformato le nostre scuole in tanti depositi pubblici di giovani generazioni, a studiare tutti nelle stesse maniere a fare tutti ad ogni ora pressoché le identiche cose.
I nostri curricoli continuano a riflettere una concezione del sapere frantumata in discipline che, se si poteva pensare funzionale al capitale umano di una società fondata sulla divisione del lavoro, oggi appare ampiamente superata, soprattutto rispetto alla necessità di acquisire competenze utili ad essere cittadini attivi, consapevoli di sé e dell’ambiente, capaci di tutelare la propria vita e quella degli altri, di perseguire il progetto di una esistenza felice. Da questo punto di vista non è più accettabile lo scarso interesse per le scienze sociali, indispensabili a costruire una autentica società della conoscenza, cosi come la matematica e le scienze, altrettanto trascurate nelle nostre scuole, sempre più indispensabili per preparare generazioni di donne e di uomini in grado di partecipare attivamente a tracciare il loro futuro, a creare un mondo capace di promuovere consapevolmente il benessere dell’ambiente e degli individui.
Non c’è nulla di intrinsecamente sbagliato nei curricoli di matematica e di scienze delle nostre scuole, tranne la loro assoluta separatezza dalla vita pratica, dal tradursi in competenze per la propria esistenza, perché separati da qualsiasi studio di indagine sull’uso di queste materie per comprendere, conoscere, governare la vita umana. La suddivisione del curricolo in discipline separate limita la prospettiva intellettuale dei nostri studenti, come l’astrazione dal contesto reale dello studio delle scienze sociali, della matematica e delle scienze si traducono esclusivamente, anziché in competenze reali, in semplici ingredienti di una generica formazione da spendere su un altrettanto generico mercato del lavoro. Un mercato del lavoro che non c’è più e, se anche c’è, sulla base dei dati riportati dall’Ocse, per cui il 70% degli italiani tra i 18 e i 64 anni ritiene che la scuola non gli abbia fornito gli strumenti per accedere al lavoro, sembra non farsene nulla nello specifico.
Il rilievo inadeguato che nei nostri programmi scolastici hanno ancora le scienze sociali, l’insegnamento della matematica e delle scienze rappresenta una sottovalutazione irresponsabile dei problemi ambientali e sanitari di dimensione mondiale che i nostri giovani dovranno affrontare, rischiando di giungere a quell’appuntamento impreparati. È questo l’umanesimo vero di cui la nostra scuola ha urgente bisogno. Sono queste le conoscenze che oggi possono liberare l’uomo, aiutarlo ad agire per difendere la qualità della sua esistenza, contro il progressivo degrado del pianeta e della sua biosfera. Oggi dobbiamo attrezzare i nostri giovani non a integrarsi nello stato-nazione con il suo sistema di mercato, ma a vivere in un mondo pulito, respirabile, umanamente migliore, che non tradisca la millenaria aspirazione delle persone ad essere felici.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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