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Questa è la seconda parte del mio intervento su genitori, figli e scuola con cui mi inserisco nella discussione aperta su Periscopio da Mauro Presini e Nicola Cavallini, il primo con l’articolo  Che cosa APPrenderanno?, il secondo con l’articolo Il virtuale è reale: non è vero che i ragazzi non comunicano più . Sono veramente contenta di questa occasione che mi consente di esporre ciò che ho acquisito nell’approfondimento del tema introdotto da Mauro Presini, quello della preoccupazione per il ruolo della tecnologia nella vita delle e degli adolescenti. Posso perfino contare su una prima consapevolezza che Nicola Cavallini fa pensare sia già presente nella riflessione generale per sperare che il mio discorso, forse difficile da ricevere, possa non cadere nel vuoto. Nella prima parte,  qui,  ho scritto in “difesa” degli adolescenti; ora vorrei illustrare un punto di vista diverso sui genitori.

Contro il senso comune: ascoltare senza giudicare

“Affermare che questa cosa [il mondo virtuale] è negativa perché non la si capisce, può portare a vietare o stigmatizzare lo strumento in sé, che è esattamente il rovescio della medaglia di lasciarlo usare senza alcun limite e senza alcuna coordinata”, dice Nicola Cavallini. Sono d’accordo. Da qualche parte, forse fra i commenti all’articolo di Mauro Presini, una maestra scriveva di una mamma che non riusciva a togliere il cellulare di notte al bambino che altrimenti piangeva. Tali giudizi sui genitori ricorrono continuamente. Intanto è da notare che il padre non è citato nel discorso della maestra, poi questo tiro incrociato cade proprio sulla croce rossa: genitori ritenuti incapaci, spesso più le mamme, ma anche i padri, additati come colpevoli, che io vedo più come vittime o come figure fragili.

A me pare di notare che fra i genitori di ragazzi o ragazze con disagio, magari con psicopatologie, i padri, spesso, assumano un atteggiamento di negazione, di rimozione o stigmatizzazione e che a volte abdichino al loro ruolo o addirittura scompaiano fisicamente. Le madri devono quindi accollarsi completamente il peso di una relazione con i figli non solo difficile di per sé, ma anche in questo modo viziata. Non è sempre così: ci sono anche padri meravigliosi e madri meno efficaci, ma è chiaro che gli stereotipi e i condizionamenti sociali provocano tali effetti. Nella scena illustrata da Mauro Presini io immagino mamme succubi dei figli, e assenza della figura paterna. È forse lo stile prevalente oggi.

Eppure conosco genitori che, spinti dalla necessità impellente di affrontare la sofferenza dei figli, si mettono in discussione giungendo, con dubbi e lacerazioni, ad acquisire elevate competenze relazionali e di cura. Diventano dei veri esperti del malessere dei loro figli, solo che quasi sempre quello che apprendono è controintuitivo, e il senso comune non lo riconosce come corretto. 

Quello seguente è un esempio di ciò che intendo. Sul sito di Hikikomori Italia si trovano le cosiddette  “buone prassi” , elaborate dallo psicologo esperto del tema e fondatore del sito, Marco Crepaldi, e confermate dagli altri esperti. Tali buone prassi comprendono il mantenimento di una buona relazione con l’hikikomori e l’assoluta rinuncia a intervenire sui comportamenti sintomatici: l’utilizzo ininterrotto della rete, l’inversione degli orari tra sonno e veglia, il rifiuto di andare a scuola e tanto altro. Questo perché i sintomi sono conseguenza, non causa, di un malessere ed occorre curare il male per eliminare i sintomi. Per spiegarmi meglio uso la metafora che ho sentito da una psicoterapeuta che parlava di anoressia: il sintomo è una stampella. Serve a chi sta male per compensare un vuoto. Se si toglie la stampella, la persona sofferente crolla.

Probabilmente non vi sarà difficile immaginare che i genitori che applicano le “buone prassi” siano spesso giudicati e stigmatizzati, da insegnanti, familiari, amici che osservano dall’esterno. Questi genitori vengono considerati spesso deboli e acquiescenti e le figlie viziate. “Io lo butterei giù dal letto!”, “Bisogna portarla a scuola di peso!”, “Bisogna staccargli internet”.

Eppure la prima cura è proprio non esercitare nessuna pressione: non fare, dicono le psicologhe. Potete immaginare quanto ciò risulti difficile: supponiamo che vostro figlio abbia mal di pancia la mattina e non voglia andare a scuola. Voi non dovreste fare niente, non dovreste costringerlo a fare le analisi mediche, non dovreste sgridarlo perché sta su internet tutta la notte, non dovreste dirgli di andare da uno psicologo. Dovreste farvi vedere tranquilli e confortanti dicendo che è importante la sua serenità, che a tutto c’è rimedio. Immaginate il rapporto di questi genitori con i nonni, o gli zii, o magari fra padre e madre e poi con gli insegnanti: “Se non viene a scuola, come facciamo ad aiutarla?”. Perfino i servizi sociali a volte denunciano i genitori per evasione dell’obbligo scolastico. Anche certi psicologi spingono a forzare.

Quando i genitori presentano alle insegnanti queste situazioni, spesso sono denigrati, non creduti, definiti “avvocati dei figli”. Nemmeno gli psicologi a volte vengono ritenuti degni di fede, perché tanti insegnanti ancora non riescono a svincolarsi dall’idea di scuola che trasmette contenuti nel modo e nella quantità apprese da loro. La scuola non ha ancora chiarito a se stessa il suo mandato, per cui chi non è capace di raggiungere certi risultati, in un certo modo, non è adatto alla scuola, cioè non è. D’altronde mi pare che la concezione attuale sia quella di una scuola produttivistica, che forma per il lavoro, non per la cittadinanza e la ricerca della propria identità.

Con tutto questo non voglio certo dire che i genitori non sbaglino. Me compresa. Matteo Lancini sostiene che il problema sono gli adulti: una società che emargina i giovani, che non dà spazio, che li giudica incapaci e manchevoli, una società competitiva, che pretende il successo e il conformismo; genitori che non sopportano di vedere i figli in difficoltà o nella sofferenza, perché questo rivelerebbe il proprio fallimento.  Genitori che non vedono, che non accettano. Scuola che spesso, anche se vede, non si ritiene competente a gestire le situazioni.

Dal mio punto di vista, alla scuola, ai genitori, manca l’abc della comunicazione, che consentirebbe di essere capaci di ascoltare, dialogare, non colpevolizzare,  riconoscere le emozioni e i bisogni in sé e negli altri. Nel mio blog ho iniziato a introdurre riflessioni e suggerimenti pratici, (vedi qui), perché penso che questa sia la chiave per cambiare le cose, per cambiare la scena di quei bambini, di quelle adolescenti. I genitori vengono criticati a ragione, ma io penso che l’obiettivo non sia di trovare il colpevole: giudicare cristallizza una realtà, non la cambia. Io penso che occorra accettare, creare consapevolezza, dare potere.

Se almeno gli, le insegnanti apprendessero a comunicare, quella maestra, oltre a un semplice commento, riuscirebbe a empatizzare con la difficoltà della mamma e a sostenerla. Quella madre riuscirebbe ad accettare il pianto del figlio e il figlio, compreso nel suo dolore invece che rifiutato, ce la farebbe a rinunciare al telefono per dormire.

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Daniela Cataldo

Scrivo regolarmente sul blog UnaScuolaFuoriclasse a partire dall’esperienza in prima persona, anche come insegnante. Ho riscontrato che non sempre la scuola sa orientarsi e orientare riguardo a certe problematiche, lasciando i genitori soli e incompresi. Quando insorgono difficoltà, più o meno temporanee, quali la dislessia, un disagio emotivo, un disagio psichico, il segnale principale è “andare male a scuola”. Per me, però, è la scuola che “va male” quando non si adatta alla extra-ordinarietà. Vorrei raccontare la mia esperienza sul tema, offrire ascolto a genitori e insegnanti e dare indicazioni su come e dove chiedere aiuto e informazioni. Mi piacerebbe che l’accoglienza e il supporto che i genitori, per necessità vitale, imparano a dare, giungessero ai ragazzi e alle ragazze direttamente, senza necessità di sollecitazioni, da insegnanti consapevoli e competenti che sanno osservare ed ascoltare

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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